Foto copertina – storymaps.arcgis.com
Rimonte incredibili, miracolose: ne è piena zeppa la storia del calcio e più in generale dello sport. Goduria pura per chi le porta a termine vittoriosamente, amara illusione per chi le sogna, le sfiora, ma non le completa, boccone amarissimo per chi le subisce, magari a pochi centimetri o secondi dal raggiungimento dell’agognato traguardo.
Alcune, entusiasmanti, ce le ha regalate la Champions League di calcio. Il 2–1 con cui il Manchester United conquista l’edizione 1999 ai danni del Bayern Monaco che vinceva fino al 90’; la rimonta del Liverpool che nella finale 2005 di Istanbul recupera tre gol al Milan e batte i rossoneri ai rigori – il Milan si rifarà nel 2007 sconfiggendo i Reds ad Atene.
Come dimenticare poi quel Barcellona – Paris Saint Germain 6-1 del 2017. Un’impresa epica con cui i catalani guidati da Luis Henrique ribaltano il nettissimo 4-0 subito all’andata degli Ottavi a Parigi. Fino a pochi minuti dalla fine sembra tutto fatto per i francesi. Il gol di Cavani dell’1-3 infatti pare aver messo la qualificazione in cassaforte. Il Paris, dopo aver sofferto nel primo tempo, è in pieno controllo del match e non rinuncia a qualche sortita offensiva, agli spagnoli occorrono tre reti e corre già il minuto 86’. Sembra finita, sembra appunto, ma non lo è. Il Barcellona, un po’ in difficoltà, comunque non molla e trova il 4-1 con una punizione prodigio di Neymar. Non basta, mancano solo due minuti al novantesimo e ancora due gol da segnare per passare il turno. Serve un miracolo. Ma qualcosa improvvisamente cambia: il Camp Nou ci crede, ruggisce e spinge i suoi, i parigini come vittime di un incantesimo perdono baldanza e sicurezza, le gambe iniziano a tremare e i difensori annaspano; i blaugrana ne approfittano e colpiscono due volte, con la zampata finale e decisiva al 94’ dell’eroe che non ti aspetti, il neo-entrato Sergi Roberto. 6-1 finale, roba da non credere!
La straordinaria rimonta del Camp Nou commentata da Pierluigi Pardo
Ma si sa, chi di remuntada ferisce, di remuntada perisce. Non una, ma addirittura due volte.
2018, Quarti di finale. Il Barcellona, forte del 4-1 vittorioso in casa, va all’Olimpico senza una gran voglia di correre, sicuro di passare il turno, troppo sicuro. Ed è travolto da una splendida Roma che rifila a Messi e compagni un perentorio 3–0. Alla storica impresa firmata da Dzeko, De Rossi e Manolas, Francesco Repice e Minerva Edizioni hanno dedicato il libro “Roma. La sera dei miracoli”, presentato a Overtime 2018).
2019, Semifinali, si replica. Questa volta il Barcellona subisce la rimonta dal Liverpool di Klopp che, pur privo dei suoi due uomini più rappresentativi – Firmino e Salah – nel tripudio di Anfield vince 4-0, ribaltando lo 0-3 dell’andata grazie a una partita perfetta.
Per compiere una rimonta occorrono grande consapevolezza dei propri mezzi, tanta voglia di centrare l’obiettivo, la forza di non arrendersi di fronte alle difficoltà, la capacità di non farsi prendere dall’ansia di recuperare troppo in fretta. Tutte qualità dimostrate da una delle regine del nostro sport, Federica Pellegrini. La Divina ha conquistato record mondiali – detiene ancora quello dei 200 m stile libero – l’oro olimpico a Pechino 2008 e tante vittorie ai Mondiali, sbaragliando diverse generazioni di avversarie.
Ma qui vogliamo parlare della sua incredibile rimonta durante la 4×200 stile libero agli Europei 2014 di Berlino: l’Italia, campione in carica, punta in alto ma alla fine della terza frazione accusa un pesantissimo ritardo, +4,51 secondi nei confronti della Svezia. Il podio è sicuro, ma la vittoria pare impresa impossibile. “É difficile adesso riuscire anche solo a pensare di poter rientrare sulle scandinave” dice Luca Sacchi ai microfoni di RaiSport. Ma la quarta frazionista è la Pellegrini, e per Federica nulla è impossibile. All’inizio il recupero è lento e progressivo. Dopo 100 metri il distacco è minore ma pur sempre amplissimo: 3,84 secondi. Ai 750 metri il gap diminuisce a 2,53 secondi, ma resta soltanto una vasca per completare l’opera. Gli ultimi 50 metri sono tutti in apnea, un vero e proprio show. Bracciata dopo bracciata la campionessa italiana si avvicina, si avvicina, la svedese sente la fatica, si scompone e viene raggiunta. Non sembra neanche vero, ma ora Federica è lì, è un testa a testa. Italia in ottava corsia, Svezia in settima. L’altro telecronista Rai, Tommaso Mecarozzi, commenta così, con tutta l’enfasi che merita il momento, gli ultimi istanti di gara: “Grande finale di Federica Pellegrini. Arriva a velocità doppia, medaglia d’oro Italia”. Oro per l’Italia e record dei Campionati. Povera Stina Gardell, questo il nome dell’ultima malcapitata frazionista svedese: non deve essere stata una bella sensazione sentirsi il fiato sul collo della Pellegrini, vedersi raggiungere, superare, sfilare da questo splendido treno in piena corsa.
La rimonta delle azzurre, firmata Federica Pellegrini
Caparbietà, classe immensa, volontà di ferro: questi gli ingredienti della rimonta di una altra grande sportiva italiana, Valentina Vezzali. Siamo alle Olimpiadi di Londra 2012, finale per il bronzo, la schermitrice di Jesi a 38 anni vuole conquistare l’ennesima e ultima medaglia olimpica. Ma l’avversaria è in gran forma, l’assalto maledettamente complicato, quasi compromesso. La coreana Nam conduce di 4 stoccate a soli 12 secondi dalla fine. Solo poter pensare a un recupero è un’impresa, quasi una follia. Ma i Campioni, quelli veri, vengono fuori in queste situazioni.
A 12 secondi dal termine Valentina accorcia le distanze. A 9 secondi dalla fine si avvicina ancora e dopo 4 secondi si porta ad un solo punto dall’avversaria. La Nam inizia a perdere sicurezza, è travolta dall’impeto e dalla classe dell’italiana, non riesce a reagire, arretra in pedana, si mette sulla difensiva. A un secondo dal termine, un solo secondo, la portacolori delle Fiamme Oro corona la sua rimonta, la più veloce della storia, raggiungendo il pareggio e obbligando l’avversaria al minuto supplementare. Durante l’extratime la Vezzali completa l’impresa con la stoccata decisiva che le vale di nuovo il podio olimpico, conquistato per cinque edizioni consecutive. Un record.
È quando si trova in difficoltà che nella testa del Campione scatta la molla per reagire, per iniziare la riscossa. Giro d’Italia 1999. Marco Pantani è saldamente in maglia rosa. All’imbocco della salita per il Santuario di Oropa, dove si conclude la 15esima tappa, il corridore di Cesenatico ha un fastidioso inconveniente tecnico alla catena, è costretto a scendere dalla bici, attende l’intervento della sua ammiraglia, perde dal gruppo dei migliori 40 secondi, forse di più. I suoi gregari lo aspettano e si spremono per fargli recuperare terreno. È come se gli tirassero una lunga, lunghissima volata. Il loro sforzo è commovente, l’ultimo a scortarlo è Marco Velo. All’inizio il Pirata appare un po’ in difficoltà, innervosito dall’imprevisto, sembra non avere un gran colpo di pedale. Ma è solo un breve attimo di smarrimento. O forse solo un saggio modo di gestire le energie, senza andare subito fuori giri, senza farsi assalire dalla frenesia.
Appena la salita si fa più dura, Pantani accelera, rompe gli indugi, sfoggia tutta la sua classe, regala spettacolo puro. Recupera i 40 secondi e supera complessivamente 49 corridori che non erano certo stati là ad aspettarlo, come succede un po’ ipocritamente nelle corse degli ultimi anni, ma si erano dati gran battaglia. Il portacolori della Mercatone Uno li raggiunge uno ad uno e il copione si ripete sempre identico a sé stesso: li prende, li guarda in faccia, scatta in piedi sui pedali, li lascia sul posto e li stacca. Simoni, Miceli, Gotti, Savoldelli, per ultimo Jalabert, non tengono le sue ruote. Pantani taglia il traguardo di Oropa per primo, senza neppure saperlo, senza alzare le braccia. Se ne accorge solo dopo, festeggiato dai membri della sua squadra. Un’impresa storica. Una rimonta eccezionale. L’apice della sua carriera. Appena due giorni prima della squalifica di Madonna di Campiglio, l’inizio della fine – non solo sportiva – di Marco.
Le immagini degli ultimi, incredibili, 8,5 km della rimonta di Oropa
Quando si parla di rimonte, non si può non pensare a Pietro Mennea e al rettilineo conclusivo dei 200 metri piani che lo consacrano campione olimpico a Mosca 1980. Quella grande impresa è celebrata dalle parole di Paolo Rosi, più di una telecronaca, pura letteratura: “Ecco! Buono l’avvio… Parte più svelto Wells nei confronti di Mennea e lo supera subito! Ecco, vediamo, lotta spalla a spalla tra Wells e Mennea! È al comando attualmente l’inglese! Mennea cerca di recuperare… Cerca di recuperare… Recupera! Recupera! Recupera! Recupera!!! Recupera!!! Ha vinto!!! Ha vinto!!!». In quella rimonta c’è tutta la rincorsa di Mennea verso quel traguardo divenuto un’ossessione, lo scopo principale della sua esistenza. Una rincorsa durata una vita, iniziata tra mille difficoltà e grande caparbietà a Barletta, terra generosa ma avara di impianti sportivi. Una rincorsa condotta da un uomo con un fisico non statuario, anzi, a dirla tutta proprio gracilino. Una rincorsa fatta a fianco del suo allenatore e mentore Carlo Vittori, portata avanti senza compromessi, con ostinazione, senza piaggeria verso una Federazione di Atletica con cui non mancano i contrasti, anche aspri. Una rincorsa che prima dell’oro olimpico lo porta anche a stabilire nel 1979 a Città del Messico un record del mondo dei 200 metri che resisterà per quasi diciassette anni e che resta tuttora record europeo.
Tante altre rimonte andrebbero celebrate: quante memorabili partite di volley o di tennis da 2 set a 0 per una squadra, o per un giocatore, si sono concluse 3 set a 2 per l’altra squadra o per l’altro giocatore in campo. Quante epiche seconde manche, alcune con protagonista Alberto Tomba, hanno reso indimenticabili slalom giganti e speciali. Quante posizioni durante i GP hanno recuperato con spettacolari sorpassi i nostri beniamini della Formula 1, Valentino Rossi e gli altri centauri del Motomondiale.
Quest’articolo non ha certo la presunzione di essere esaustivo, ma vuole essere un semplice modesto spunto, uno stimolo a ricordare le rimonte sportive, e non solo, che maggiormente hanno scaldato, emozionato, allietato i nostri cuori.
4 Commenti
[…] di Città del Messico. Lo avvicina, ma senza appaiarsi a lui, quello che sempre lì riuscì a Mennea nel 1979 sui 200 metri. Quel salto più lo si vede e si cerca di comprendere, con gli occhi […]
[…] di casa e strusciava con le ginocchia sul pavimento imitando l’esultanza di papà dopo la doppietta nella semifinale mondiale del ‘98 contro la Croazia. In cuor suo aspettava solo il momento. Andava con Lilian al campo d’allenamento e con la […]
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