Mentre in questo complicato periodo lo sport dilettantistico annaspa tra mille difficoltà, senza garanzie di sopravvivenza, certezze e tempi di ripresa, quello professionistico prosegue, va avanti nonostante tutto. Non senza ostacoli, con grande e ammirevole sforzo organizzativo, con le bolle e le sessioni di tamponi che si affiancano a quelle di allenamento. Almeno per ora i calendari delle maggiori competizioni nazionali e internazionali vengono rispettati e fortunatamente è sempre più concreta la possibilità di disputare regolarmente le Olimpiadi di Tokyo, varianti nipponiche del virus permettendo.
Per preservare salute pubblica e non mettere a rischio vite umane si è giustamente deciso di svolgere gli eventi sportivi in assenza di pubblico. Un pubblico di cui questa pandemia ci ha privato, di cui sentiamo terribilmente la mancanza, che ora più che mai comprendiamo non possa essere superficialmente e ingenerosamente definito semplice cornice perché in realtà è parte essenziale, integrante, fondamentale dello spettacolo. Da più di un anno ormai stiamo facendo i conti con le porte chiuse, con partite e gare disputate senza spettatori e tifosi, in ambienti ovattati, durante le quali si riescono a sentire distintamente le indicazioni tecniche degli allenatori e le imprecazioni dei giocatori. Senza più cori, boati di gioia, supporto e incitamento. Senza più quella forza osmotica e identificativa tra il protagonista in campo e quello sugli spalti.
Il ruolo dello spettatore in un evento sportivo è assolutamente sacro e insostituibile. Va rispettato. E il vuoto che si viene a creare a causa della sua inevitabile assenza in questo periodo non può di certo essere colmato da manichini o operazioni piuttosto discutibili come quella posta in essere dalla Lega di Serie A di calcio che, durante la finale di Coppa Italia 2020 Napoli-Juventus, per dare un tocco di colore, ha deciso di sostituire il vuoto dei posti a sedere con un pubblico tutto virtuale e colorato. Suscitando critiche e ilarità generalizzate.
Abbiamo pochi giorni fa appena visto in tv il quarto di finale di Champions League tra Real Madrid e Liverpool. Si è trattato indubbiamente di uno spettacolo mozzato, incompleto, che sarebbe stato tutt’altra cosa se corroborato dalla carica dei sostenitori che spesso ha accompagnato le imprese sia dei Blancos che dei Reds. E ciò al di là delle dichiarazioni di Klopp che, abitualmente estraneo alla cultura dell’alibi, non ha nascosto le difficoltà di ambientamento del suo Liverpool in una cornice così asettica, acuite dall’aver giocato non al Bernabeu, indisponibile in quanto sottoposto ad una massiccia opera di restyling, ma all’Estadio Alfredo Di Stefano, poco più di un campo di allenamento, dalle dimensioni ridotte e non abituali per un evento del genere.
Dopo un torneo incertissimo fino all’ultimo respiro, il Galles si è aggiudicato il Six Nations 2021 di rugby, purtroppo orfano del suo pubblico, della sua essenza più vitale, genuina e profonda. Quanto ci è mancato vedere prima delle partite e durante gli infiniti terzi tempi fraternizzare le tifoserie delle diverse Nazionali con un bicchiere di birra in mano e tanta contagiosa allegria in corpo. Osservare nei pressi dello stadio Olimpico e per tutto il centro di Roma i festanti supporter gallesi e irlandesi con le loro maglie rosse e verdi mischiarsi e fondersi con l’azzurro dei tifosi italiani in un clima di generalizzata spensieratezza. Quanto ci è dispiaciuto non poter andare a sostenere la nostra giovane e traballante Italia a Edimburgo, approfittando della partita anche per una passeggiata lungo il Royal Mile, una visita al castello, per degustare una real ale in uno dei suoi pub tradizionali.
Per il secondo anno consecutivo, lungo i 254 chilometri che separano Anversa dal traguardo di Oudenaarde, gli appassionati di ciclismo non hanno potuto assistere dal vivo al Fiandre, una classica del nord che è assolutamente riduttivo definire solo come una tra le corse più amate dell’intero panorama internazionale. Essendo molto di più, una vera e propria festa nazionale per il popolo belga, rito e rituale da vivere, onorare, preservare. I corridori hanno affrontato nel silenzio, soli nella loro fatica, i tradizionali diciannove passaggi sui muri, i bergs acciotolati, dove non hanno trovato ad accoglierli e sospingerli come al solito migliaia e migliaia di calorosi tifosi. I quali non hanno potuto perpetuare la tradizione di arrivare nei punti cruciali del percorso ore e ore prima del passaggio della corsa, occupando ogni posto possibile, senza lasciare nemmeno lo spazio per uno spillo.
Godendosi, con l’aiuto di birra e patatine, quella lunga interminabile attesa prima di veder transitare davanti agli occhi i loro beniamini, per giunta per pochissimi inestimabili secondi. La gara è stata spettacolare e avvincente, si è conclusa con l’inaspettata vittoria del danese Asgreen che ha battuto nello sprint finale a due l’olandese Van der Poel. Un grande spettacolo, a cui comunque inevitabilmente è mancato qualcosa, la sua colonna portante, la compagnia di un pubblico rimasto fedele al ciclismo sempre, anche nei suoi periodi più bui e discussi.
Ci siamo immedesimati nelle fatiche, le difficoltà, le frustrazioni affrontate dagli organizzatori dei Mondiali di sci di Cortina 2021: programmazione e preparativi durati anni e anni, nessun aspetto lasciato al caso o all’improvvisazione, piste modellate alla perfezione, ricettività turistica ampliata e migliorata qualitativamente, per poi dover far i conti con una manifestazione negata all’accesso del pubblico. Un duro colpo, al quale tutte le componenti dell’organizzazione hanno saputo reagire nel miglior modo possibile. Con passione e professionalità. Nella speranza di non vedere mai più atlete e atleti vincere medaglie mondiali, coronare il sogno di una vita senza poter condividere la gioia del successo con gli spettatori, i tifosi, i familiari assiepati nel parterre.
Sensazioni inedite, strane, tutto fuorché appaganti. Così come è stato triste non vedere la consueta folla straripante all’arrivo degli slalom di Zagabria. O non poter assistere alla consueta liturgia pagana del weekend di Kitzbuehel con il suo brulicare di gare, gente, feste, durante le quali era anche possibile incrociare a un bancone di un bar lo sguardo dello statunitense Bode Miller intento a festeggiare – senza risparmiarsi – una delle sue spettacolari ed entusiasmanti vittorie.
Non sarà la stessa cosa di sempre neanche vedere il prossimo GP di Imola con gli spalti completamente vuoti e desolati. E tutte le gare di Formula Uno e MotoGP non saranno nemmeno precedute da quei sabati di vigilia carichi di trepidante attesa e caratterizzati da celeberrime feste. Come quelle organizzate al Mugello o in Australia, a Phillip Island, vicino all’oceano, con migliaia di persone – famiglie con bambini comprese – a radunarsi a ridosso della pista, grigliare, ascoltare musica e sgasare con ogni sorta di mezzo meccanico. Con buona pace dei piloti, costretti a far maledettamente fatica a prendere sonno.
L’elenco di manifestazioni snaturate dalla mancanza di spettatori è ovviamente lunghissimo ed è meglio fermarci qui, prima che la nostalgia ci conquisti definitivamente e prenda il sopravvento. Lo sport e i suoi eventi non possono fare a meno delle tradizioni, dei riti, della propria gente. Che speriamo possa tornare presto ad affollarli, riappropriarsene, essersene protagonista, recuperando a pieno il suo insostituibile ruolo. Quando ciò accadrà potremo tirare un lungo e meritato sospiro di sollievo: significherà soprattutto esser usciti fuori da questa terrificante pandemia.
Foto copertina – Due ali di folla riempiono il muro di Grammont del Fiandre di qualche anno fa. (bicitv.it)