L’ultimo lampo di Joltin’ Joe DiMaggio

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Foto copertina – vanityfair.com

Era di martedì.

Due giorni prima i Cleveland Indians avevano segnato 14 punti tutti insieme nel primo inning contro i Philadelphia Athletics. Un record. Perciò quella sera la gente aspettava Joe DiMaggio per batterlo.

Il lunedì il signor Roger, un concessionario automobilistico di Hot Springs, nell’Arkansas, aveva sposato una giovane vedova, Virginia Cassidy Blythe, madre del piccolo William Jefferson di tre anni, adottandolo e dandogli di là a qualche tempo il proprio cognome: Clinton. Ma questa è solo una cosa che serve a fare scena. Niente sapeva ancora il futuro presidente degli Stati Uniti delle discussioni che alla Casa Bianca si tenevano in quelle ore sulla linea da tenere verso la Corea del nord, che minacciava con le sue truppe di sfondare il confine e invadere a sud.

Il Brasile aveva appena aperto uno stadio da 200 mila posti a Rio de Janeiro in vista dei Mondiali di quello strano sport giocato soprattutto in Europa e in Sudamerica con una palla e con i piedi. Gli Indians avevano invece un impianto da 77mila posti e se lo facevano bastare. I biglietti venduti quella sera per andare a vedere come se la passava ancora DiMaggio, ormai vicino ai 36 anni, furono 52.733. Così scrisse al mattino successivo Roscoe McGowen su New York Times nel dare prima la notizia della vittoria per 8-2 degli Yankees e poi quella della battuta valida numero 2000 del vecchio Joe. L’ultimo lampo di gloria, si sarebbe saputo di lì a poco.

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elitesportny.com

Gli ultimi lampi non si riconoscono mai. È affascinante scorrere a ritroso le biografie degli sportivi e andare alla ricerca di una traccia dell’imminente declino mentre sono ancora acclamati. Per dire. Mentre sta battendo con un match spettacolare feroce e violento Earnie Shavers, nel settembre del ‘77, nessuno immagina che Muhammad Ali troverà di lì a cinque mesi sul suo cammino Leon Spinks e una sconfitta color tramonto. Così come nessuno immagina a Ginevra nel settembre del 1981 che Björn Borg sta alzando l’ultimo trofeo prima di andarsene. Né che nel 5-1 in Supercoppa contro la Juventus nel settembre ‘90 sia custodito l’inconsapevole bagliore finale del genio di Maradona, sei mesi prima della positività alla cocaina. Diamine: sempre a settembre. Joe DiMaggio segnò invece la valida numero duemila il 20 giugno del 1950.

Solo 51 giorni dopo sarebbe stato tenuto in panchina per la prima volta nella sua carriera da Casey Stengel, un tipo con due World Series vinte da giocatore con i Giants e sette da allenatore con gli Yankees, fra 1949 e 1958. Non si prendevano più. Prima di lasciarlo fuori, Casey Stengel aveva però chiesto al proprietario degli Yankees Dan Topping di andare da Joe a proporgli di giocare in prima base, pensando che al boss non avrebbe detto no. Infatti non disse no. Pose una sola condizione. «Deve avere il coraggio di venire a chiedermelo lui». Giocò davvero in prima base, mancò in qualcosa, non fece grossi errori. Gli Yankees persero 7-2 contro Washington. Restò fuori per 6 partite, si riprese il posto per un infortunio di Hank Bauer. Ormai era chiaro come stava andando a finire.

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Joe Di Maggio e Marylin Monroe si godono il meritato relax a Redington Beach, Florida, nel 1961. (stpetecatalyst.com) 

Nel luglio del ‘51, dopo essere stato sostituito nel secondo inning da Jackie Jensen per un errore commesso nel primo, Joe DiMaggio decise in cuor suo che era finita, prima che fosse finita per tutto il mondo e per davvero nel mese di dicembre. Ma quella sera del 20 giugno 1950 il vecchio Joe fece DiMaggio per una volta ancora, incrociando i passi con un altro giocatore italo-americano. «Oltre a spezzare una serie di sei vittorie consecutive degli uomini di Lou Boudreau, Joe DiMaggio ha dato un colpo di fulmine alla sua grande carriera» scrisse McGowen su New York Times. Eliminò Marino Pieretti, terzo lanciatore degli Indians, mandando Gene Woodling in casa base – credo si dica così – su una palla messa in campo da Larry Doby.

Marino Pieretti era nato a Lucca. Joe DiMaggio aveva le sue radici in Sicilia. Giuseppe Di Maggio, 25 anni, pescatore, e Rosalia Mercurio, di diciannove, rammendatrice di reti, si erano sposati in un pomeriggio di dicembre del 1897 nella chiesa Maria Santissima delle Grazie all’Isola delle Femmine, borgo a dieci chilometri da Palermo. Giuseppe si era fatto costruire una barca a Capaci, usciva ogni mattina tra l’Addaura e il Golfo di Carini, Capo Gallo e Punta Raisi. Gli sposi vivevano di polipi e triglie, oppure se la pesca andava male di reti riparate. Dopo 5 anni di matrimonio nasce Adriana, i Di Maggio come molti altri pescatori si imbarcano per l’America, si dice in cerca di fortuna. C’è chi scrive che Giuseppe sia partito prima e che Rosalia lo abbia raggiunto nel 1902. Chi li vuole in viaggio insieme. Prendono comunque casa in una cittadina della California non distante da San Francisco, insieme ad altri palermitani per dedicarsi alla pesca di granchi e calamari. A Martinez Giuseppe e Rosalia fanno nascere altri sette figli. Il 25 novembre del 1914 tocca a Joe.

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Giuseppe e Rosalia DiMaggio insieme al loro figlio più celebre (pbs.org)

A scuola va così così. Fa lo strillone. Vende giornali. Il padre gli insegna i trucchi della pesca ma con la mazza da baseball Joe fa molto meglio. A 17 anni è alto un metro e ottanta e ha i denti davanti separati. I San Francisco Mission della Pacific League lo prendono. Gli Yankees lo portano via con un contratto da 25mila dollari a stagione. Costruirà la sua leggenda in tredici campionati.

Le notizie su un suo arrivo in Sicilia sono state a lungo contrastanti secondo le diverse fonti consultate. Qui cuciamo le cose più attendibili incrociate qua e là tra interviste e testimonianze. L’unica volta in cui Joe visita Isola delle Femmine dovrebbe essere nell’estate del 1955. I giornalisti italiani lo intercettano all’aeroporto di Fiumicino, lui si rifiuta di rilasciare dichiarazioni sulla fine del matrimonio con Marilyn Monroe dell’anno prima e dice che sta per volare a Palermo. Il sindaco del borgo quell’anno si chiama Di Maggio come lui, Francesco, un ingegnere che lo ospita in casa sua e che ricostruisce l’albero genealogico con l’aiuto di sua sorella Elisabetta che parla inglese. Elisabetta morirà nel 1978 nel disastro aereo di Punta Raisi. La famiglia Di Maggio ha avuto otto sindaci nel tempo a Isola delle Femmine. Nessuno può dirsi, documenti alla mano, imparentato con Joe.

Nel 1962 il campione è di nuovo in Italia per affari ma evita la Sicilia. Nel 1993 lo ritroviamo a Roma dal presidente Scalfaro. Lancia la palla d’avvio di una partita all’Acquacetosa poi si sente male, si dice un infarto, in realtà un problema respiratorio, e all’ultimo istante deve rinunciare al volo in Sicilia per ritirare la cittadinanza onoraria. Al suo posto si presentano dei dirigenti della federazione. Delusione. Salta la festa. Il sindaco si sposta di persona a Roma per incontrarlo e consegnargli almeno l’atto. Una ventina di minuti di chiacchiere, il dono di una palla da baseball, arrivederci.

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Joe, al centro, abbraccia i fratelli Vince e Dom. È il 1936, l’anno del suo debutto con gli Yankees. (Mark Rucker/Transcendental Graphics, Getty Images)

Oggi Isola delle Femmine non ha una strada a lui intitolata perché già esiste una via di Maggio, probabilmente in riferimento al quinto mese dell’anno. La casa di Giuseppe e Rosalia è diventata un museo nel 1995 ma è chiuso dal 2004. C’è una targa all’esterno ma pare sia al civico sbagliato. A Catania vive un trentaduenne Joe Di Maggio, che gestisce un’officina meccanica e sostiene che il ceppo del suo omonimo abbia radici iniziali a Regalbuto.

Quando Joey Amalfitano, figlio di un italiano di Ischia, vinse le World Series come coach dei Dodgers nel 1988 disse: «Lui era importante come il presidente degli Stati Uniti, lo vedevo giocare e mi dicevo: diavolo, un italiano come me, così in alto. Allora ho pensato che avrei potuto tentare nel baseball anch’io». Sul frigorifero di John Turturro c’è appeso un ritaglio di giornale con un’intervista ai genitori di Joe DiMaggio, preoccupati di descrivere il figlio come uno che non conosce l’italiano. «Di questa storia mi colpisce l’orgoglio di due italiani – spiegava Turturro – perché il figlio aveva cancellato le origini».

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Joe DiMaggio nel 1943, mentre indossa la divisa dell’esercito statunitense. (nww2m.com)

Quando Joe DiMaggio morì, il presidente degli Stati Uniti era quel bambino di tre anni, figlio della coppia che si era sposata il giorno prima della sua battuta valida numero duemila a Cleveland. Alla fine di questo viviamo. Di coincidenze, di incroci, di casi fortuiti che ci attraversano la strada.

 

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Un commento

  1. […] del potere per i campioni e viceversa. Hoover si fece fotografare mentre stringeva la mano a Joe DiMaggio allo Yankee Stadium, allo stesso modo Jimmy Carter era spesso in tribuna a vedere […]

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