Foto copertina – Illustrazione del libro “Gigi Meroni. Il ribelle granata” di Riccardo Cecchetti, presentato ad Overtime 2013
Sette sono i colori dell’arcobaleno. E, dal luglio 2018, un nuovo arcobaleno sorridente è comparso nel cielo della nostra Serie A: Cristiano Ronaldo. Un avvento benefico il suo, che ha dato una dimensione nuova – e più vera – ad un numero, il 7, che ha spesso vissuto all’ombra del 9 e del 10. Il 7 per molti anni è stato sinonimo di ala destra. Presenza laterale e marginale, comunque dipendente dalla giocata di altri. Talentuoso sì, narcisista talvolta, incostante spesso. Giocatore di fascia, il gesso della linea come demarcazione tra esserci e non esserci: di qua il campo, di là le tribune. Luogo ai confini del gioco, non a caso usato in epoche ormai remote come una sorta di refugium peccatorum per l’infortunato che, nell’impossibilità di essere sostituito, veniva spostato all’ala, tanto lì danni non ne combina. Ruolo, e numero, dunque, di seconda fascia. I big non lo vogliono. Sandro Mazzola lo indossa ai mondiali tedeschi del ’74 obtorto collo, pur di evitare nuove staffette. Nel 1976 Rivera ci fa una guerra di religione con l’innovativo mister Marchioro prima di riprendersi l’amato 10, con annesso ritorno di Nereo Rocco.
Eppure il 7 per la Bibbia è il numero perfetto. Sette sono le virtù. A dire il vero, sette sono pure i vizi capitali. Gaetano Scirea aveva il 7 nelle notti magiche di Spagna 1982. Ronaldo lo ha elevato a elemento distintivo del suo brand. E, a scavare bene nelle storie del pallone, il 7 è il numero di maglia di chi, ha saputo regalare sorrisi ed emozioni. Gioie e fantasie. Magie e poesie.
La prima sagoma che compare è quella sbilenca di Manoel Francisco dos Santos, brasiliano, classe 1933, detto Manè. Ha la gamba destra più corta dell’altra, regalo non voluto della poliomelite. La sorella Rosa lo ribattezza Garrincha, come l’uccellino dalla coda rossa e dalle gambe sottili, un po’ sgraziato alla vista, ma che è chiamato anche “uccellino del paradiso”. Manè con il pallone ci sa fare. Il dribbling è la sua gioia. Si diverte a sfidare il difensore. Palla ferma, il busto reclinato leggermente in avanti. La gamba offesa diventa il suo punto di forza. La finta, sempre la stessa, è irresistibile. Lo scarto laterale, palla al piede. E il terzino beffato, sbuffa e ringhia, mentre lui pensa già alla successiva giocata, in un crescendo di sorprese ed emozioni. Vince due mondiali con il Brasile: 1958 e 1962. È l’innesco delle azioni d’attacco della Seleçao. La spalla perfetta di Pelé. La fantasia allo stato puro. Il più bel verso del poeta. I tifosi lo amano alla follia. Per loro Garrincha è l’Alegria do Povo – Gioia del popolo -, altro soprannome per un artista del pallone, che poi si è perso nei dribbling non riusciti nella vita. Una schiera di figli, una manciata di mogli; molto, troppo alcol e tanta, tanta miseria. Muore da solo, a neanche 50 anni. Ma al suo funerale un popolo intero si mobilita e piange, nel ricordo delle sue magie.
Una scia luminosa, solcata da un velo di malinconia. Questa l’eredità di Garrincha che fa il paio con quella rimasta impressa nei cuori del popolo granata – e non solo – fin dal 15 ottobre 1967, triste domenica di campionato, che vide la fine della parabola terrena di Gigi Meroni, numero 7 del Toro, travolto da un’auto in centro a Torino. Aveva solo 24 anni. Eppure gli era bastato poco per lasciare il segno. In campo, ma anche fuori. Il dribbling ubriacante e gli abiti disegnati da solo. Il pallonetto-gol di incredibile bellezza e la vecchia Fiat Balilla del 1937 come auto di tutti i giorni. Le volate sulla fascia palla al piede e la gallina tenuta al guinzaglio in giro per le vie di Torino. L’altruismo in ogni sua azione e l’amore incondizionato per Cristiana. Un calciatore beat, un’ala destra traboccante di talento e fantasia. Un precursore del 1968 ormai alle porte. I baffi e la barba incolta. I capelli lunghi. Non era bizzarria. Piuttosto il desiderio di essere sè stesso. Coraggioso e controcorrente. Una mente libera. Come nel campo di calcio. Come solo chi indossa la maglia numero 7 può esserlo. Dopo la tragedia di Superga, il popolo granata aveva trovato un nuovo idolo. Per questo scese in piazza e bloccò il trasferimento del proprio beniamino alla Juventus di Agnelli. Sembrò una vittoria vera. Pochi mesi dopo, il volo della farfalla granata si bloccò sul più bello.
Serviranno quasi dieci anni ai tifosi del Torino per tornare ad emozionarsi per le giocate di un nuovo 7 granata. Quello che dal 1975 comparve sulla schiena di Claudio Sala, classe 1947, insieme alla fascia di capitano. Sala, privo di baffo, era al Toro già dal 1969. Era costato un sacco di soldi, si portava dietro l’ingombrante marchio di “nuovo Sivori” e giocava in mezzo al campo con il 10. Tecnicamente un mostro di bravura. I tifosi lo avevano fin da subito soprannominato “il Poeta del gol”. Sinistro naturale fatato, ma molto ben educato anche l’altro piede. Il dribbling nello stretto il suo top, era servito davvero il tirocinio da bimbo nei corridoi lunghi e stretti del condominio di casa. É forte, ma anche discontinuo. E un po’ permaloso. Al suo nuovo allenatore, Gigi Radice, che gli dice di spostarsi a destra, maglia numero 7 inclusa, risponde picche. Il mister incassa e capisce che deve cambiare strategia. Butta per primo i denari: Claudio, se parti dalla fascia, è meglio per te e sei più utile per la squadra. Poi, ecco i cuori: Ferrini non c’è più, Cereser ha salutato. La fascia di capitano la do a te. Sala cede. È la svolta per il Poeta. Il suo gioco laterale, la sua capacità di saltare l’uomo e di pennellare cross perfetti dalla linea di fondo per i Gemelli del Gol, al secolo Ciccio Graziani e Paolino Pulici, significa scudetto. È il 1976, 27 anni dopo Superga, il tricolore torna sulle maglie granata. Claudio Sala è il big di quella squadra. Il suo rendimento è altissimo. Da ala destra, numero 7, dà il meglio di sé. Finte e controfinte, il pallone nascosto al terzino che ballonzola da una parte all’altra, ubriacato dai ricami del Poeta. Che i goal preferisce farli fare a suoi compagni.
Un grande numero 7 a cui è mancata solo la Nazionale. Il motivo? Ha un nome e un cognome: Franco Causio. Un altro 7 raffinato e straripante in fatto di tecnica. Da ragazzo gioca mezzala. Alla Juve, dove torna nel 1970 si alterna tra centrocampo e fascia. Fino al 1976, anno dell’arrivo di Giovanni Trapattoni che sposta in pianta stabile Causio all’ala destra. Numero 7 e robusti baffi in perfetto stile anni ’70: queste le novità per il talentuoso leccese, classe 1949, che da lì in avanti diventa uno dei più forti del suo ruolo. Non solo in Italia, ma anche a livello internazionale. Bearzot, il CT azzurro, si affida al blocco Juve di cui Causio è uno dei cardini insostituibili. Dribbling, corsa, velocità. E poi colpi di tacco e giocate sudamericane, tanto che, oltre a Barone, verrà ben presto ribattezzato Brazil. È un’ala di classe assoluta. Unisce fantasia e concretezza, istinto sudista e pragmaticità piemontese. La giocata ad effetto infiamma il pubblico. Roberto Bettega che tramuta il cross in sonanti gol, gli deve una buona metà del suo bottino. È una prima donna, ma è pure atleta serio. Lui si accontenta di far girare l’attacco, una sorta di regista avanzato, seppure spostato sulla fascia. Arriva anche a segnare. Con la maglia azzurra una sera del 1979 all’Olimpico di Roma, in una sorta di rivincita contro l’Argentina – per l’occasione con il giovanissimo Maradona – batte Fillol con un pallonetto dal limite dell’area dopo aver saltato con un sombrero un difensore. Applausi.
Agli inizi degli anni Ottanta il Barone pare in declino. Trapattoni gli preferisce talvolta Pietro Fanna, che nel vano tentativo di raccoglierne l’eredità perderà ben presto il biondo crine – ma si rifarà da saettante ala destra del Verona scudetto di Osvaldo Bagnoli nel 1985 -, e soprattutto l’anima lunga di Domenico Marocchino. Lui sì altro 7 da favola. Un puledro di razza, ciondolante e indisponente con quel ciuffo che segue l’andatura del corpo. Grandi numeri, viva intelligenza, poco ordine, molta pigrizia. La stessa che lo porta a sostituire un piedino rotto della rete del letto con una cassa d’acqua, per non parlare delle scarpe in frigo. Ottima progressione, il destro migliore del sinistro, ma i gol più belli li segna tutti con il mancino. Si spegne presto, ma si diverte molto. Per un po’ alla Juve la maglia di Causio è sua, mentre in Nazionale l’erede del Barone è Bruno Conti, classe 1955. Un mancino puro all’ala destra. Notevole intuizione di Nils Liedholm, Barone anche lui. Conti è la fantasia fatta giocatore, seppure in un fisico ridotto, grande cassa toracica e testa capelluta. È un furetto che regala magie e sorrisi. Dapprima al popolo giallorosso, quindi a quello azzurro quando nell’estate del 1982 porta per mano la claudicante Italia della prima fase, al trionfo mondiale in Spagna. Le sue lacrime di gioia nel ricevere la Coppa del Mondo sul palco del Bernabeu entrano in tutte le case. E regalano emozioni ancora più forti dei suoi gol e dei cross col contagiri per Paolo Rossi e Altobelli. Pelé lo incorona miglior giocatore del mondiale. Lo chiamano Marazico, ma l’estro di un artista si manifesta nella trovata di genio; nel rendere nobile una parte del corpo che, solitamente, di nobile ha poco. Lo stinco. Bruno Conti e lo stop a seguire di stinco, sì. Una giocata intelligente e furba. Il pallone che ha appena rimbalzato, grazie all’impatto con la tibia piegata a quarantacinque gradi rispetto al terreno, prosegue la sua corsa in avanti, a pelo d’erba, veloce. Il difensore è in controtempo. Non ti prende più. E tu puoi correre lungo la linea di gesso ed inventare una nuova azione.
Anche da qui passa la poesia, come capitò all’ala destra Giovanni Roccotelli, detto Cocò, il primo ad aver eseguito la mitica rabona di maradoniana memoria, in una domenica del gennaio 1978, in Serie B con la maglia dell’Ascoli.
Colpi di genio e colpi di testa. Come quelli di Ezio Vendrame, scomparso il 4 aprile 2020. Un concentrato di fantasia e di sana pazzia. Il desiderio di distinguersi, la voglia di colpire l’immaginazione, il bisogno di non tenere imprigionato l’estro. Riesce a stupire il pubblico anche a sua insaputa, quando il suo giovane viso imberbe debutta nell’album Panini 1967-68 con la maglia della Spal, ma con il nome di tal Gildo Rizzato. Un colpo di teatro per una figurina che diventa un “Gronchi rosa”. Ma a lui, frega niente. Ezio Vendrame, un giocatore intelligente, un anarchico con barba e capelli lunghi, un ufo per un mondo ingessato e sotto ipnosi, quale quello del pallone dei suoi tempi. A cavallo tra i Sessanta e i Settanta, il calciatore di proprietà della società. E che sia ben pettinato e allineato. E lui, in questo ci sguazza. Non solo per il look, ma per quel che fa in campo. Dribbling, colpi di classe e giocate di qualità, compreso un tunnel a Gianni Rivera per un pentimento postumo. Ma anche lucide follie, come quella volta che, in un ciapanò mai visto in uno stadio, se ne va contromano palla al piede verso la sua area di rigore, supera anche il portiere per poi fermarsi sulla riga di porta. Dispetto? Provocazione? O, magari, libera scelta in risposta a taciti accordi del prepartita? Mistero. Gli anni belli, oltre che a Padova, a Vicenza tra il 1971 e il 1974, con la mitica maglia biancorossa a righe e la R cucita sul petto. Dietro, molto spesso il 7.
Il numero di Eric Cantona al Manchester United. Nel suo repertorio di grandissimi giocate e di gol da cineteca, c’è spazio anche per il colpo di kung-fu assestato ad un fan del Crystal Palace che lo stava offendendo. Cantona, il francese più amato dagli inglesi. Un artista a tutto tondo, un genio incompreso e tormentato. Un giocatore rimasto ancora oggi nei cuori dei tifosi dei Red Devils che non smettono di inneggiare al suo nome. Un degno erede di chi, prima di lui, ha indossato la maglia numero 7 del Manchester United: George Best. Irlandese di Belfast, dove era nato il 22 maggio 1946, il “Quinto Beatle” ha saputo emozionare come pochi il pubblico del grande calcio. La parte migliore della sua vita calcistica l’ha spesa con i Red Devils con cui ha vinto due campionati, due Charity e una Coppa di Lega. Il suo anno d’oro è il 1968: trascina la sua squadra alla conquista della Coppa dei Campioni – prima affermazione per una squadra inglese – e pochi mesi dopo si aggiudica il Pallone d’oro come miglior giocatore d’Europa. In campo è un genio assoluto. Accarezza il pallone, ricama dribbling, segna gol bellissimi. Regala spettacolo a piene mani. Fuori non vince. Cade ben presto vittima dell’alcol. La sua carriera ne risente. A 24 anni di fatto la sua parabola è già in fase discendente. Sprazzi di giocate, perfino nella nuova patria del soccer in USA e spruzzi sempre più massicci di superalcolici lo porteranno alla morte avvenuta nel 2005. George Best, il “Quinto Beatle”, si diceva. Una vera e propria icona della generazione del ’68. Sex symbol, una popolarità del tutto simile a quella di una rock star. Idolo dei tifosi. Il calcio come motivo di piacere. Da ricevere e da dare. “Quando ho iniziato a giocare io – parole di Best – l’Inghilterra era fantastica. Si cominciavano a portare i capelli lunghi, la musica era favolosa, la moda meravigliosa e anche il calcio britannico non era male. Non si giocava con gli orecchini, i capelli colorati e i tatuaggi sui polpacci. Io, Di Stefano, Pelé e i miei amici allo United facevano divertire la gente. Allora il calcio era divertimento”. E poesia.
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