Beatles for sport

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L’ultimo accordo dei Beatles fu un FA maggiore. Get back to where you once belonged. Èquesto l’ultimo verso dell’ultimo pezzo Get Back nell’ultimo album. Let It Be. FA maggiore, signori si chiude. Altre canzoni non ce ne sarebbero state più. Il disco uscì l’8 maggio del 70. Il gruppo s’era sciolto il mese prima. Aveva dato l’annuncio il 10 aprile Paul McCartney. William Mann sul Times scrisse: “Se i Beatles fossero un gruppo pop come gli altri, non ci sarebbe motivo di allarmarsi per la dichiarazione con cui Paul McCartney ha annunciato che non lavorerà più con loro. Gli altri si potrebbero cercare un nuovo bassista-chitarrista, un cantante, e andare avanti. Ma l’immagine dei Beatles e la loro influenza sulla cultura pop degli ultimi 10 anni sono dipese da quattro personalità distinte che hanno lavorato insieme: senza Paul non esistono i Beatles”.

Poco meno di un anno più tardi, in una intervista rilasciata a Life, Paul McCartney dava la sua versione dei fatti. Lennon amava le adunate, i festival, la gente sui prati. Lui avrebbe voluto seguire un percorso per un ritorno alle origini, i club, le cantine, meglio se sotto falso nome. “Prendere un van e girare per i piccoli teatri dei piccoli villaggi, mettere una locandina che annunciasse i Ricky and Red streacks, una roba così, la gente sarebbe arrivata e avrebbe trovato noi. A me pareva una grande idea, John disse: tu sei scemo. Da quel momento in avanti il punto vero è stato trovare la forza per vivere ognuno la sua vita, e per me è stata davvero la prima svolta dopo tanto tempo, e coincideva peraltro con l’incontro con Linda. Così, nei primi giorni del 1970 ho telefonato a John e gli ho detto: “Guarda che anch’io lascio i Beatles”. Lui ha risposto: “Fantastico, finalmente siamo di nuovo in due a pensarla allo stesso modo”.

In realtà Let It Be non fu l’ultimo album a essere inciso. Era pronto da un anno ma i nastri erano stati messi da parte per una serie di contrasti e di beghe finanziarie tra i quattro e la Apple. Vennero consegnati in produzione all’insaputa di McCartney. L’ultimo disco inciso è stato Abbey Road, che si conclude con un accordo di DO maggiore, la canzone è Her Majesty. Quel pezzo però finì in coda agli altri solo per l’errore di un tecnico in post produzione. Il pezzo finale doveva essere The End, a sua volta chiuso da un DO maggiore. A complicare le cose si aggiunge il fatto che l’ultima seduta effettiva in uno studio di registrazione a nome dei Beatles servì, sempre senza Paul, a registrare – tre mesi prima di lasciarsi – il pezzo di George Harrison I Me Mine, che si chiude in LA minore. Così i Beatles ci lasciano in eredità due dilemmi. Il primo è musicale: qual è stato il loro ultimo accordo? Il secondo è: ma dello sport gliene fregava qualcosa o no?

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Il 30 aprile del 1965 i quattro firmano un telegramma che è stato trovato tra i cassetti di Bill Shankly, allenatore del Liverpool dell’epoca, dai suoi familiari. Èun telegramma spedito alla vigilia della finale di Coppa d’Inghilterra tra Liverpool e Leeds. Dice più o meno: forza, su, dai, noi vi guardiamo stasera in tv. Quattro giorni prima era finito il campionato, tre giorni dopo sarebbe stata in programma la semifinale di andata in Coppa dei Campioni contro l’Inter, finita 3-1 e ribaltata al ritorno dalla famosa astuzia di Peirò. In mezzo la finale di Wembley. Con 100 mila spettatori. Una partita a cui il Liverpool era arrivato eliminando il Chelsea. Shankly aveva trovato in giro una brochure sulla quale i londinesi avevano avuto la malaugurata idea di fare riferimento alla data della finale e alla possibilità di giocarla. Shankly l’aveva attaccata allo spogliatoio e aveva chiesto ai suoi di far vedere chi erano, “a questi bufali arrapati e arroganti del sud”.

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La finale contro il Leeds finisce 2-1 per il Liverpool. Quello di cui non siamo certi è che i quattro quella sera poi fossero davvero davanti alla tv. Siamo invece ormai sicuri che non fossero tutti tifosi del Liverpool. Anzi. Ringo Starr è sospettato di avere avuto simpatie per l’Arsenal, perché i suoi figli sono poi stati abbonati alle partite della squadra di Londra. C’è chi si dice convinto dell’esistenza di un audio relativo alla registrazione di Get Back in cui Ringo Starr parla dell’ultima partita del Chelsea.

A George Harrison non gliene fregava granché. Frase che gli viene attribuita: «A Liverpool ci sono tre squadre, io tifo per l’altra». L’altra erano loro. La sua passione era differente. Nel libro George Harrison: Behind the Locked Door, Graeme Thompson ha scritto che era “un bambino sportivo, particolarmente versato per il calcio e per il nuoto. Guardava le corse di auto e il Gran Premio di Gran Bretagna sul circuito di Aintree, il principio di una lunga passione per la velocità e le automobili. Scriveva alle scuderie britanniche e si faceva mandare le foto dei loro ultimi modelli. I piloti avrebbero poi fatto parte dell’eterogeneo gruppo di persone frequentate, insieme ad “attori, comici, devoti Krishna, occasionali fan in grado di penetrare nel sancta sanctorun e fare una foto – prima dell’omicidio di Lennon nel 1980 la sicurezza non era sempre stretta”.

George Harrison spiegò che non doveva parere strano il suo interesse per i bolidi che “inquinano, uccidono, storpiano, fanno rumore” non doveva parere incoerente con la sua ricerca spirituale, perché “i piloti devono essere molto capaci di concentrazione e i pochi che sono al vertice arrivano a una sorta di dilatazione della propria coscienza”.

Il produttore Russ Titelman ha testimoniato che a George «piaceva andare veloce in macchina». L’altro produttore Ted Templeman possedeva diverse Ferrari che erano tra gli argomenti preferiti delle loro conversazioni. “Quando guidava mi spaventava a morte. Una volta mi è venuto a prendere all’aeroporto con la sua Porsche gialla e al ritorno ha preso certe piccole stradine di campagna. Pensavo che non avrei dovuto. Avevo le mani bianche. Poi mi sono detto: questo è un Beatle. Non morirò”.

C’è una foto che ritrae George Harrison a bordo pista in Spagna l’8 maggio del 77 con Jackie Stewart, il quale dichiarò che erano molto diversi l’uno dall’altro, “sembravamo venire da pianeti diversi” ma erano simili “nel prestare un’attenzione fanatica ai dettagli”.

twitter.com/georgeharrison

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Scrive Thompson che in quel periodo “i suoi capelli erano modellati con una lunga e ispida permanente che lo rendeva simile al calciatore Kevin Keegan – sfoggiava baffi e indossava pantaloni a zampa di cavallo. Era una incarnazione ambulante del divario generazionale”.

Fu il periodo in cui scrisse la canzone Faster, secondo Thompson dedicata a Jackie Stewart e Niki Lauda, “apparentemente parlava del coraggio e dell’abilità dei suoi amici di Formula Uno, ma poteva anche essere letta come una parabola sulla fama dei FabFour, sulle gelosie e cose del genere”.

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Antonio Bacciocchi nel libro Rock’n Sport ritiene invece che il brano fosse dedicato in particolare a Ronnie Peterson, lo svedese morto nel 1978 in seguito a un incidente avvenuto durante il GP di Monza. Secondo Niki Lauda, Peterson è stato il più grande pilota fra quelli che non hanno mai vinto il Mondiale. Più grande anche di Stirling Moss.

Nel video del pezzo compaiono immagini di gare di Formula Uno, Jackie Stewart è l’autista della Rolls Royce a bordo della quale canta e suona George.

George era cresciuto “con il mito di Fangio, di Moss e dello stesso Stewart. Apprezzava le Williams e le McLaren. Formò addirittura un super gruppo di Formula Uno con Gilles Villeneuve e Damon Hill alla chitarra, Eddie Jordan alla batteria e Gerard Berger all’ukulele”.

Nella biografia Harrison, la vedova Olivia ha scritto che le corse automobilistiche, così come il giardinaggio, erano diventate il suo rifugio dopo la fine dei Beatles. “Non gli piaceva la celebrità. Penso che ne avesse avuta abbastanza fino al 1970 da potergli durare per tre vite”.

Il papà di John Lennon era tifoso del Liverpool, la famiglia di McCartney era dell’Everton. All’età di 11 anni John aveva disegnato su un foglio un’azione della finale di Coppa d’Inghilterra fra Arsenal e Newcastle del 1952, per farne anni dopo la copertina di Walls & Bridges. Era un omaggio a Jackie Milburn, il Wor Jackie con il nove in bianconero dietro la schiena. Un numero cui Lennon avrebbe finito per legarsi: Revolution 9, The One After 909 e #9 Dream. Del disegno e della copertina non c’è traccia nemmeno in una riga nella biografia di Milburn a cura di suo figlio Jack, A Man of Two Halves.

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Gli altri due nomi del mondo del football collegabili a Lennon sono Matt Busby, allenatore del Manchester United anni 60 ma calciatore del Liverpool fra il 1936 e il 1940, e Albert Stubbins, centravanti del Liverpool di fine anni 40-inizio anni 50 che con i suoi gol aveva riportato la squadra al titolo dopo 24 anni. Evidentemente due miti di Lennon padre. Il nome di Busby è in Dig It, una cantilena sulla lettera B. Il volto di Stubbins è sulla copertina dell’album Sgt. Pepper fra Marlene Dietrich e Lewis Carroll.

Hunter Davies, scrittore e anchorman scozzese, l’unico mai autorizzato dai Beatles a scrivere una loro biografia, in The Beatles Lyrics: The Unseen Story Behind Their Music, ha spiegato che l’idea di Stubbins è probabilmente partita da lui. O così racconta che gli piace credere.

“A casa di Paul un giorno li sentii discutere sui personaggi che avrebbero dovuto mettere in copertina e io suggerii che almeno un calciatore famoso dovevano metterlo, sebbene sapessi che nessuno di loro era un tifoso accanito da ragazzo. John pensò a lungo e alla fine scelse Albert Stubbins, perché – disse – aveva sempre pensato che fosse un nome buffo”. Ma pare sia stato Paul a mandare un telegramma a Stubbins per avvertirlo.

Di Paul McCartney si è sempre saputo che il 18 maggio 68 fosse in tribuna a Wembley per la finale di Coppa d’Inghilterra tra Everton e West Bromwich Albion (0-1). Ma anni dopo, quando in Europa dominava il Liverpool, sua moglie Linda si fece sfuggire che a casa facevano il tifo per i Reds davanti alla tv bevendo vino. Circostanza questa che a pensarci bene potrebbe rafforzare la tesi dei complottisti secondo cui il vero Paul è morto e la sua vita è stata vissuta da un sosia, eccetera eccetera.

D’altra parte, Paul ci mette del suo per confonderci le idee. Quando Rafa Benítez portò il Liverpool di nuovo in finale di Coppa dei Campioni, McCartney diede un’intervista a Radio Merseyside: «Se il Liverpool va in finale di Champions io tifo per la squadra della mia città». In un’intervista rilasciata al magazine sportivo di Observer Paul spiegò che «mio padre era dell’Everton, se fossi andato a vedere un derby o una partita con lui avrei dovuto tifare per l’Everton. Ma dopo un concerto a Wembley, sono diventato amico di Kenny Dalglish che era venuto a vedermi e allora ho pensato: sai una cosa, voglio tifare per tutt’e due, perché sono tutt’e due di Liverpool e così esco pure da questa storia dei cattolici e dei protestanti».

Non un’uscita da evertonian puro. Due anni fa ha scherzato in una intervista video a Wired: «Ho una speciale dispensa del papa».

Joe Gomez, Jordan Henderson, Adam Lallana e Alex Oxlade-Chamberlain omaggiano la band di Liverpool prima dell’amichevole Olanda-Inghilterra del 23 marzo 2018 (thesun.co.uk)

Joe Gomez, Jordan Henderson, Adam Lallana e Alex Oxlade-Chamberlain omaggiano la band di Liverpool prima dell’amichevole Olanda-Inghilterra del 23 marzo 2018 (thesun.co.uk)

Pete Best, batterista prima dell’arrivo di Ringo, raccontò anni fa in un’intervista che John era il più appassionato di tutti nel giocare a calcio durante le pause delle prove. «Quanto a me – ammise – fin da bambino mi hanno spiegato che la mia squadra doveva essere quella vestita di blu». Fine delle discussioni.

La verità è che Brian Epstein, il manager, aveva chiesto ai quattro, o forse dovremmo dire imposto, di non parlare mai di calcio in pubblico, di non frequentare né Anfield né Goodison Park. Per non dividere i fan.

C’è stato un periodo durante il quale non era chiaro neppure se i Beatles avessero visto o ascoltato la finale dei Mondiali del 1966. Uno degli eventi sportivi più rilevanti nella vita dei ventenni inglesi negli anni 60. Sembrava si potessero dire indifferenti finanche a quello. Finché è venuto fuori che nella versione di Glass Onion trovata in Anthology 3 era stata campionata l’esultanza di Kenneth Wolstenholme, telecronista della BBC, it’s goal, it’s goal. La sua frase cult di quel giorno («some people are on the pitch…they think it’s all over….it is now!») è entrata nella cultura pop inglese come il «campioni del mondo» ripetuto tre volte da Nando Martellini o il più recente «Beppe andiamo a Berlino» di Caressa. L’effetto fu eliminato dalla versione definitiva del White Album del 1968.

Equidistanza. Nella scena di Eleanor Rigby in Yellow Submarine le due squadre di calcio sono una blu e una rossa. Se è vero che Lennon e McCartney erano in tribuna a Everton-Sheffield Wednesday, finale di Coppa d’Inghilterra 1966, è anche vero come ha scritto Karl Coppack che Paul nel 1977 cercò di ascoltare in tutti i modi alla radio la finale di Coppa d’Inghilterra tra Liverpool e Manchester United mentre era in barca ai Caraibi.

The Anfield Kop in the 1960s sings The Beatles

Prima che You’ll Never Walk Alone diventasse l’inno del Liverpool, ad Anfield si cantavano spesso canzoni dei Beatles. A Lennon piacevano i riti, piaceva questa dimensione collettiva del calcio. In una conversazione con Tariq Ali e Robin Blackburn del 21 gennaio 1971, pubblicata su Red Mole nel marzo successivo, Lennon dice: «Mi piaceva all’inizio sentire la folla allo stadio mentre cantava Yellow Submarine e All Together Now. Così come mi è piaciuto che Give Peace A Chance sia diventato una specie di inno».

Era il periodo in cui Lennon si spendeva per la diffusione della meditazione. «La gente pensa: sei ingenuo, sei stupido, possono dirlo in molti modi. La puoi chiamare magia, meditazione, visualizzazione di un obiettivo. La fanno anche i calciatori, adesso. Pregano, meditano prima della partita. Si visualizzano nella vittoria. La tennista Billie Jean King visualizza nella sua mente ogni movimento che farà sul campo. Se funziona per un calciatore o una tennista, può funzionare per tutti noi. Dobbiamo progettare un futuro positivo. Voglio dire, io credo che alla fine fosse ciò che Cristo e Maometto dicevano a modo loro ai loro tempi nella loro società».

Apriamo una parentesi. Esiste in Brasile un John Lennon calciatore. Ha 29 anni e gioca terzino nella Juventude, una squadra di Caxias do Sul, nello stato del Rio Grande do Sul, che vent’anni fa ha vinto la Coppa del Brasile e ha giocato la Coppa Libertadores per poi sprofondare anche fino in Serie D. John Lennon Silva Santos è uno di quei giocatori che nel suo paese prendono un nome d’arte per farsi notare. Sono esistiti Mozart, Wagner, Bellini. C’è stato un Mauro Shampoo che quando ha chiuso è andato a fare il parrucchiere. Ci sono stati Hulk, Pikachu, Dunga (il nano Cucciolo in portoghese). Nell’ex squadra di John Lennon, l’Atletico Goianiense ha giocato anche un Mahatma Gandhi. Non solo. Il 31 ottobre del 2013 il campionato brasiliano ha registrato la sostituzione più musicale di tutte. A mezz’ora dalla fine della partita contro l’Avaí, è uscito John Lennon Silva Santos e al suo posto è entrato Carlos Adriano Sousa Cruz detto Michael Jackson. Due mesi prima Michael Jackson aveva fatto un assist per un gol di John Lennon. Chiusa parentesi.

John Lennon Silva Santos - Gabriel Tadiotto on “Juventude.com.br”

John Lennon Silva Santos – Gabriel Tadiotto on “Juventude.com.br”

Quando nel febbraio del 1964 i Beatles sono per la prima volta in America, prima che possano registrare il loro intervento all’Ed Sullivan Show, a Miami si sentono proporre un passaggio dai due pugili che stanno preparano il match per la corona dei pesi massimi, il campione Sonny Liston contro il ventiduenne che ha vinto 4 anni prima alle Olimpiadi, uno del Kentucky che si chiama Cassius Clay.

Ringo Starr col tempo avrebbe confessato che in realtà loro erano lì per Liston ma all’improvviso si trovarono di fronte l’altro, che John Lennon definiva «il fanfarone che sta per perdere». In effetti è sfavorito. I bookmaker lo danno a 7. Davanti all’obiettivo del fotografo del New York Times, Harry Benson, si materializza senza che fosse mai stata preparata da nessun ufficio marketing e comunicazione l’incontro leggendario fra icone assolute della cultura pop, destinate poi a farsi politiche, filosofiche, anche spirituali, destinate a dividere, a scandalizzare.

Robert Lypsite, giornalista del New York Times dichiarerà che non sapeva chi fossero i Beatles né immaginava cosa sarebbero diventati. «Erano solo dei ragazzi magrolini con un sacco di capelli e con addosso giacche bianche di spugna». Clay arriva e gli fa: «Dai, Beatles, andiamo a fare un po’ di soldi». Finge di colpire George Harrison e gli altri cadono come pezzi del domino o come castelli di carta. Una cosa indimenticabile e naturale. Poi quando i Beatles se ne vanno in limousine, Clay si avvicina al giornalista e domanda: “Tu sai chi erano quelle femminucce?”.

mondiali.it

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Ci sono altri frammenti che accostano i Beatles allo sport prima che arrivi il legame più drammatico di tutti. Nel documentario Imagine si vede Lennon tirare a canestro. In uno show tv Paul e i suoi Wings giocano a calcio. Nel film Help i quattro giocano a curling. Nella sequenza tra le Alpi austriache, sfuggono a un attentato organizzato da due scienziati pazzi. La stone che George Harrison lancia in direzione di Ringo Starr contiene infatti una bomba. John Lennon rivelerà: «A quei tempi fumavamo marijuana per colazione; nessuno riusciva a parlarci: quattro paia di occhi imbambolati che ridacchiavano di continuo, persi nel loro mondo».

Negli ultimi anni McCartney è stato inquadrato spesso spettatore negli stadi americani di partite di basket, baseball, football. Si sa che da bambino a John piaceva nuotare, anche se non a livello agonistico. Nel marzo del 1974 John Lennon fa un’apparizione al Monday Night Football, ospite di Howard Cosell. Gli chiedono di una possibile reunion dei Beatles. Esce dall’angolo con una piroetta dialettica.

Non può sapere che sei anni dopo sarà proprio Cosell a dare la notizia della sua morte ai telespettatori sportivi americani, durante la partita tra i Miami Dolphins e i New England Patriots. Ha ricevuto una telefonata da New York dal collega Alan Weiss che è sotto casa Lennon dopo una sparatoria. C’è Yoko Ono in lacrime. Si parla di una conferenza stampa in arrivo.

Frank Gifford in diretta mormora: «Howard, devi dire quello che abbiamo saputo in cabina».

«Sì, dobbiamo annunciarlo. Una tragedia indicibile confermata dalla nostra redazione di New York: John Lennon, forse il più famoso dei Beatles, è rimasto vittima di un agguato di fronte al suo appartamento in Central Park West. Ferito da due colpi di arma da fuoco, è giunto esanime al Roosevelt Hospital. È difficile tornare alla nostra partita dopo questa notizia».

Sullo schermo c’è il kicker dei Patriots, John Smith, che sta prendendo la rincorsa per un calcio.

Questo articolo è stato rielaborato per Overtime ed è tratto da “lo Slalom”, una newsletter mattutina per abbonati: una selezione ragionata dei temi e dei protagonisti del giorno, con contenuti originali o rielaborati, brevi estratti degli articoli più interessanti usciti sui quotidiani italiani e stranieri, sii siti, i blog, le newsletter e le riviste specializzate, con materiale d’archivio, brani di libri e biografie. Una guida e un invito alla lettura e all’approfondimento, con montaggio a cura di Angelo Carotenuto.

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2 Commenti

  1. Marco Turchetti 7 Maggio 2020 al 14:52 - Rispondi

    Bravissimo, un bellissimo articolo, ben scritto e molto divertente. Complimenti.

  2. […] canzone su Carter che il rapporto con la boxe dei songwriter americani non sarà più lo stesso. Sono tanti i collegamenti negli ultimi quarantacinque […]

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