La terra dalle lunghe nuvole bianche

Print Friendly, PDF & Email
nuova zelanda

«È la morte, È la morte! È la vita, è la vita!»

(dalla “Haka”)

 

Billy Stead faceva il calzolaio e non alzava mai lo sguardo dai libri che si era portato dietro. Bob Deans veniva dai campi, era un agricoltore e la sera voleva che si dicesse messa. Dave Gallaher era il caporeparto al mattatoio e guai a chi pensava di potergli togliere la partitina a carte. Jimmy Hunter lavorava la terra a Mangamahu e quando gli facevano un complimento per l’imbarazzo si strofinava il naso.

Mona Thompson era un impiegato statale e non si toglieva mai il cappello, Eric Harper allevava bestiame e conosceva le regole del galateo a tavola come nessun altro. Bunny Abbott invece lavorava il ferro. Bill Cunningham aveva imparato a cantare così bene al buio tossico delle miniere, mentre Frank Glasgow sapeva suonare il piano e aveva sempre i polsini delle camicie insudiciate dal lavoro dietro lo sportello in banca. George Smith era bravissimo a cavallo, o forse bisognerebbe dirlo meglio, era così bravo perché era stato un fantino. Fred Newton era detto Fats perché gli piaceva ingozzarsi a colazione. Spesso era George Taylor a spalmargli il burro sul pane, lui che faceva il maestro d’ascia in un cantiere navale e raccontava a tutti la storia di quel suo amico, al quale uno squalo aveva una volta portato via una rotula da un ginocchio.

E alla fine veniva Billy, Billy Wallace detto Carabina. Fu lui a raccontare che la leggenda era cominciata per un equivoco, che nel vederli vincere per 63-0 contro l’Hartlepool, il cronista del Daily Mail aveva dettato al telefono che erano tutti imprendibili, tutti velocissimi, gli erano parsi tutti dei Backs e in tipografia avevano invece composto Blacks, erano gli All Blacks, un mito nato da un refuso.

all blacks

Gli All-Blacks (The Originals) del 1905. (rugbymuseum.co.nz)

Nel cinquantenario di questo loro primo tour in Europa, la Carabina Wallace raccontò che quando il giornale aveva annunciato la successiva trasferta in Irlanda, altri dicono che fosse Scozia, la folla si era radunata al cancello dello stadio e nel vederli passare mormorava che i giornalisti scrivono sempre quello che vogliono, scemenze, non era vero niente, lo vedi che sono tutti bianchi come noi. Una versione che a tanti parve subito parecchio romanzata. Qualche storico s’è messo a cercar prove senza trovarne, come se la verità possa poi essere più interessante di certe fesserie ben raccontate.

La Nazionale neozelandese di rugby che nel 1905 arrivò per la prima volta nel Regno Unito aveva solo due macchie diverse dal nero lungo la sua divisa, una felce argentata sul petto a sinistra e il bianco dei lacci degli stivali. Perse solo una volta, la ventottesima delle trentacinque partite giocate, 0-3 contro il Galles a Cardiff, e si guadagnò di fronte alla storia il nome di The Originals, gli All Blacks da cui ogni cosa ebbe principio, i pionieri partiti in nave verso le Isole Britanniche e arrivati a Plymouth dopo due scali, uno a Montevideo e l’altro a Tenerife.

Il romanzo delle origini

«A vederci partire si erano radunate cento persone, incuranti del freddo e del nevischio. Ce ne stavamo lì coi bagagli e le scarpette, il colletto alzato a proteggerci dalle intemperie, a bordo dell’SS Rimutaka, e pian piano, come un enorme tronco incagliato che si libera nella corrente, la nostra vita scivolò a babordo, a prua, oltre i promontori. A quel punto i rimorchiatori abbassarono le bandiere; e i loro uomini si raccolsero sul ponte di prua e, stretti l’uno all’altro, ci cantarono il buon viaggio. Il vento mozzò l’ultimo verso di “Auld Lang Syne”, i rimorchiatori scomparvero alla vista, e da quel momento andammo avanti da soli.

Eravamo di Auckland, qualcuno dell’Otago e del Taranaki, altri di Cambridge e di Wellington; Stead era il solo del Southland, Corbett l’unico della costa occidentale, e Hunter veniva dai dintorni di Wanganui, un posto dal nome maori dove ogni suono parlava di boscaglia strisciante e isolamento. Il senso generale di ciò che eravamo non si era ancora formato».

di Lloyd JonesIl libro della gloria (Einaudi)

 

Quando gli All Blacks si fanno conoscere dall’Europa, la Nuova Zelanda non è solo il Paese nel quale Capodanno grazie al fuso orario arriva prima che nel resto del mondo. È anche il primo Paese al mondo che ha riconosciuto il diritto al voto delle donne, già da una dozzina d’anni (1893). È passato mezzo secolo dalle guerre maori, i conflitti tra i nativi e i coloni britannici. La nazione degli All Blacks acquisirà lo status di dominion due anni dopo quel tour in Europa e l’indipendenza soltanto nel 1947.

Come spesso accade nella società, lo sport aveva anticipato le decisioni della politica. La Nuova Zelanda era andata per conto suo alle Olimpiadi già nel 1920. I suoi campioni precedenti avevano gareggiato per i britannici o per la squadra dell’Australasia. La prima stella da medaglia d’oro ai Giochi era stata Victor Lindberg, un pallanuotista nato nelle Fiji da genitori svedesi e irlandesi, trasferiti in Nuova Zelanda quando era bambino. Inizialmente non risultava incluso nell’elenco ufficiale della squadra di Osborne, il club mandato in acqua per rappresentare la Gran Bretagna. Le ricerche successive gli hanno restituito il diritto di essere considerato la prima pietra della storia olimpica della Nazione. I suoi discendenti hanno ricevuto una medaglia dal presidente del Comitato olimpico solo 7 anni fa.

Victor Lindberg, quarto da sinistra nella fila in alto, insieme al resto dell’Osborne Swimming Club di Manchester. (waterpololegends.com)

La prima spedizione da quest’altra parte del mondo con la bandiera neozelandese – ai Giochi di Anversa 1920 – contava invece su due corridori, una nuotatrice di quindici anni – Violet Walrond, quinta – e un canottiere, Clarence Hadfield, che tornò a casa con la medaglia di bronzo nel singolo. Arrivò dietro l’americano Jack Kelly, il papà di Grace. Hadfield era nato ad Awaroa Inlet, Tasman Bay. Due anni prima delle Olimpiadi era rientrato dalla prima guerra mondiale, proprio dal Belgio, con una ferita alla testa. Era figlio di William Welby Hadfield, un contadino, e di sua moglie, Martha Adele Ann Snow.  Il papà lo aveva messo a lavorare nella fattoria di famiglia, dove aveva imparato il mestiere di falegname e come si costruiscono le barche. Nel 1910 risulta impiegato in Auckland, con un posto da maestro d’ascia presso il cantiere navale di Charles Bailey. In seguito avrebbe ricoperto lo stesso ruolo alla Union Steam Ship Company of New Zealand.

Il suo viaggio verso Anversa durò nove settimane con poche chance di allenarsi. Ora che le acque neozelandesi sono pronte per l’inizio delle finali di America’s Cup, va ricordato che alle barche a remi si affidava Hadfield come principale mezzo di trasporto. I suoi datori di lavoro lo convinsero a unirsi al Waitemata Boating Club, dove fu chiaro che sarebbe diventato un campione già alla prima regata, vinta a Mercer con l’equipaggio del quattro. Si sarebbe imbarcato per la guerra con il primo battaglione del reggimento di fanteria di Auckland pochi giorni dopo aver sposato il 29 agosto 1916 ad Auckland la sua ragazza, Sereta – Sarita – May Coyle, una commessa. Al ritorno superò una bronchite, batté il campione olimpico del 1912, William Kinnear, vinse il titolo nazionale e fu selezionato per i Giochi.

Il canottiere Darcy Clarence Hadfield. (teara.govt.nz)

La sua prima figlia nacque prima che lui riuscisse a rientrare in tempo dalle gare in Belgio. Fece del canottaggio una professione. Guadagnava 200 sterline per ogni gara. Viene descritto in una biografia come un uomo tranquillo, modesto, di statura media, gentile, galante. Avrebbe poi fatto l’allenatore e il riparatore di barche. Ha gareggiato un’ultima volta nel 1956 all’età di 67 anni. È morto a Auckland nel 1964, sopravvissuto alla moglie e ai due figli. Le sue ceneri sono state sparse nella baia di Okahu, nel porto di Waitemata. Il canottaggio rimane tuttora lo sport nel quale la Nuova Zelanda ha vinto più medaglie olimpiche, 11 ori, 3 argenti e 10 bronzi, prima dei 10 ori, 3 argenti e 10 bronzi dell’atletica, i 9 ori, 7 argenti e 6 bronzi nella vela.

Violet Walrond, la baby nuotatrice mandata a quei Giochi di Anversa, era alta un metro e 60 e pesava appena 48 chili. Suo padre Cecil era il suo allenatore e il suo accompagnatore. Anche per lei la preparazione non fu ideale. Il viaggio via mare accusò dei ritardi in Australia e in Sudafrica. La squadra non aveva un’uniforme. Violet portava un abito color crema e foglie di felce su un cappello per farsi identificare orgogliosamente come neozelandese. Il suo pronipote, Carl Walrond, ha raccontato che quando all’inizio degli anni Novanta ancora andava a farle visita, lei gli mostrava le vecchie foto e le medaglie. Coltivava un albero di pompelmo in giardino. È stata la prima donna del suo Paese a praticare lo stile libero, che ad Anversa era usato dalle sole americane. Le vincitrici, Ethelda Bleibtrey e Irene Guest, le consigliarono di non andare a crawl per tutta la distanza nei 300 metri, il punto è che lei non conosceva altri tipi di bracciata.

nuova zelanda

Violet Walrond nel 1920. (en.wikipedia.org)

Il primo oro olimpico della Nuova Zelanda è venuto con Ted Morgan, pugile, peso welter, alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928. La famiglia di Ted Morgan era arrivata a Wellington dall’Inghilterra nel 1907, quando Ted aveva uno anno. JP Firth, preside del Wellington College che Ted avrebbe frequentato, ex dirigente del Comitato olimpico tra 1923 e 1927, credeva nell’importanza della forma fisica e aveva organizzato corsi di boxe a scuola, dove Morgan combatté da peso gallo e poi da peso leggero. Una volta diplomato, lavorò come apprendista idraulico e fu selezionato per la squadra olimpica. Morgan era mancino. Aveva reputazione di grande mobilità. Durante il viaggio in nave verso l’Olanda, a bordo della Remuera, gli fu montato un sacco da boxe, così da consentirgli di esercitarsi, in compagnia dell’altro pugile Alf Cleverley. La perdita di peso nel corso della traversata – quattro chili – fu un problema da superare. Una settimana prima dei Giochi una contusione alla mano sinistra gli rendeva dolorosi gli allenamenti. Nonostante tutto batté lo svedese Selfrid Johannson, l’italiano Romano Canova, il francese Rene Catalaud e l’argentino Paul Landini. Passò professionista nel 1929, ma perse 11 dei suoi 26 match. Cinque anni più tardi tornò a fare l’idraulico.

L’atletica leggera ebbe il primo eroe in Jack Lovelock, oro olimpico alle Olimpiadi di Berlino del 1936, in una gara a cui assistettero 120.000 spettatori, tra cui Adolf Hitler. Lovelock aveva in animo di gareggiare nei 5000 metri anziché nei 1500. Prese l’interno della pista all’americano Glenn Cunningham e mentre si avvicinavano al giro finale, aveva solo lo svedese Eric Ny davanti. A 300 metri dalla fine, Lovelock accelerò e fece perdere il controllo dei toni e delle parole al commentatore radiofonico della BBC, Harold Abrahams, il vincitore del 1924. Lovelock era laureato in Medicina, aveva due figli, morì in modo prematuro a 39 anni. Gli sono state intitolate strade, campi da gioco, locali. Ha ispirato libri, uno spettacolo teatrale e un film. Nel 2002 è stata eretta una statua per lui alla Timaru Boys’ High School, dove sono conservati molti dei suoi cimeli.

Alla Fairlie School, la scuola elementare, aveva gareggiato anche nel nuoto, al liceo anche nella boxe.

Quattro anni dopo l’oro ai Giochi di Berlino, una caduta da cavallo lo lasciò privo di sensi per due giorni. Vertigini e problemi alla vista continuarono a condizionarlo. Nel 1945 Lovelock sposò Cynthia Wells James, un’americana che aveva incontrato in Inghilterra, probabilmente otto anni prima. Il loro lungo fidanzamento fu influenzato dal lavoro di Lovelock e dalla posizione finanziaria condizionata dalla seconda guerra mondiale. Quando nel 1947 si trasferirono in America, Lovelock venne assunto all’Ospedale di Chirurgia Speciale di Manhattan, lavorando nell’ambito della medicina riabilitativa.

La sua morte fu tragica. Il 28 dicembre 1949 uscì di casa nonostante avesse appena avuto un malore per andare al lavoro. Alle 9.30 la segretaria del dipartimento telefonò alla moglie per dirle che il dottore stava rientrando in anticipo a casa, ma durante l’attesa alla stazione della metropolitana di Church Avenue, Lovelock cadde sotto un treno e fu ucciso sul colpo.

6 agosto 1936, John Lovelock conquista l’oro nei 1500 metri davanti ai 120.000 di Berlino (nzhistory.govt.nz)

L’atletica ha dato alla Nuova Zelanda anche la prima medaglia olimpica femminileYvette Williams, in seguito Corlett, la vinse nel salto in lungo a Helsinki, nel 1952. Yvette era anche lanciatrice del peso, del giavellotto e del disco. I neozelandesi rimasero svegli tutta la notte per seguire alla radio la sua gara. Dopo la migliore misura in qualificazione (6,16), la Williams iniziò la finale con due nulli, poi infilò un 5,90 e un 6,24 a un solo centimetro dal record del mondo. Quando salì sul pennone la bandiera del paese, il comitato olimpico internazionale fece suonare sia God Save the Queen sia God Defend New Zealand. Sarebbero dovuti passare altri 40 anni prima di un nuovo oro femminile, con la windsurfista Barbara Kendall a Barcellona.

A proposito di Abrahams. Prima che arrivasse la gloria dalla corsa a cinque cerchi, ma anche prima che la Nuova Zelanda offrisse al cinema i lavori di Jane Campion (Lezioni di piano) e di Peter Jackson (la saga del Signore degli anelli), il film vincitore dell’Oscar Chariots of fire (1981) aveva trasformato nel personaggio di Tom Watson, terzo dietro Harold Abrahams e Jackson Scholz, le vicende reali di Arthur Porritt, il quale rifiutò il permesso per l’uso del suo nome, pare per modestia, o forse per altro. Dopo la carriera da sportivo fu chirurgo, militare e politico. Porritt era uno dei quattro neozelandesi alle Olimpiadi del 1924. Disse che lo avevano convocato perché era molto economico portarlo a Parigi: studiava Medicina a Oxford. Quella di Porritt fu la prima medaglia in assoluto su pista vinta dalla Nuova Zelanda. Non aveva nemmeno un allenatore. Fino alla morte di Abrahams, giunta nel 1978, i due uomini e le loro mogli hanno cenato insieme alle 19 in punto, il 7 luglio di ogni anno, per ricordare la loro finale.

nuova zelanda

Shane Smeltz festeggia la rete del parziale 1-0 contro la Nazionale di Lippi. (cnn.com)

La Nazionale di calcio della Nuova Zelanda ha uno strano legame con l’Italia. Si è qualificata per il suo primo Mondiale nel 1982, l’anno del titolo di Bearzot, e perse le tre partite nel girone con la Scozia (5-2), l’Unione Sovietica (3-0) e il Brasile (4-0). Il secondo Mondiale è stato quello del 2010, chiuso da imbattuta, con tre pareggi, compreso l’1-1 contro l’Italia campione in carica di Lippi, contribuendo alla sua eliminazione.

I Giochi di Pechino del 2008 sono stati i primi con la partecipazione di una squadra di calcio del Paese, sia maschile sia femminile. Un precedente controverso in qualche modo c’era già stato. Nel 1956 erano stati selezionati due arbitri, Morrie Swain di Wellington e Reg Lund di Auckland, per le Olimpiadi di Melbourne. Lund aveva arbitrato l’incontro di primo turno dell’Australia contro il Giappone e la ripetizione dei quarti di finale URSS-Indonesia.  Swain era andato in campo per il 9-1 nei quarti di finale della Jugoslavia contro gli Stati Uniti e fu designato per la semifinale tra Jugoslavia e India.

Swan aveva fatto una discreta impressione, abbastanza per essere chiamato nel ruolo di guardalinee in finale: URSS-Jugoslavia, partita che si giocava poco dopo l’invasione sovietica in Ungheria. La folla di 102 mila persone al Melbourne Cricket Ground sapeva da quale parte schierarsi. Swain raccontò di essersi sentito come l’uomo più odiato nello stadio quando alzò la bandierina per segnalare il fuorigioco che cancellava il gol jugoslavo dell’1-1. Due anni prima, durante una partita di club tra Apollon e Zealandia, si era dovuto chiudere a chiave negli spogliatoi per sfuggire al linciaggio.

Questa vignetta di Eric Heath è apparsa sul giornale Dominion il 2 settembre 1976, un mese dopo la fine delle Olimpiadi di Montreal. I cinque anelli olimpici erano diventati le mura di cinque stadi separati, etichettati come America, Pacifico, Africa, Cina ed Europa.  La vignetta faceva riferimento alle controversie politiche che rischiavano di distruggere l’internazionalismo ideale dei Giochi – una paura concreta all’epoca – confermata poi da ciò che sarebbe accaduto a Mosca 1980 e Los Angeles 1984.

Era successo che la Nuova Zelanda si trovasse al centro delle proteste della comunità internazionale a causa degli All Blacks, che avevano partecipato a un tour in Sudafrica, a dispetto degli appelli delle Nazioni Unite per un embargo sportivo, effettivamente disposto dal comitato olimpico internazionale. Le nazioni africane si infuriarono. Chiesero al CIO di escludere la Nuova Zelanda, poi in 27 decisero di non presentarsi. La gara in cui la situazione politica diventò più evidente fu quella dei 1500 metri. Filbert Bayi della Tanzania era il primatista del mondo in carica, ma in Canada non andò.

Proprio John Walker, neozelandese, diventava uno dei favoriti per la medaglia d’oro. Il team manager della spedizione istruì Walker e gli diede l’ordine di non parlare ai giornalisti della situazione. Walker non prese nemmeno parte alla cerimonia di apertura e delle guardie armate furono poste di sentinella alla sua stanza, all’interno del villaggio. Vinse la gara in 3’39”17 ma quattro anni più tardi fu costretto a sua volta a non partecipare a Mosca, dove il governo scelse di non mandare una delegazione. Parteciparono in tutto quattro atleti – tre canoisti e un pentathleta -, da indipendenti, senza finanziamenti pubblici e avendo per bandiera un drappo nero con la felce. Filbert Bayi dalla Tanzania mandò un messaggio a Walker: «Ora sa come mi sono sentito io».

Il successo di John Walker nei 1500 metri piani ai Giochi di Montreal 1976. (runnerstribe.com)

Un ultimo momento storico nel cammino olimpico della Nuova Zelanda si è avuto nel 1992, quando Annelise Coberger è diventata la prima atleta dell’emisfero australe a vincere una medaglia alle Olimpiadi invernali, con l’argento nello slalom di Albertville in Francia. Rimane l’unica medaglia ai Giochi invernali del suo paese, ma i 20 anni di Alice Robinson promettono nuove incursioni. Nel 2019 la slalomista ha vinto la sua prima gara di Coppa del mondo nel giorno in cui gli All Blacks venivano clamorosamente battuti ai Mondiali di rugby giapponesi in semifinale dall’Inghilterra. Le donne neozelandesi hanno vinto l’oro olimpico nove volte (di cui tre a Londra nel 2012). Le più recenti: ad Atene 2004 la ciclista Sarah Ulmer nell’inseguimento individuale, le gemelle di canottaggio Georgina e Caroline Evers-Swindell nel doppio sia ad Atene (2004) che a Pechino (2008), Valerie Vili nel tiro sia a Pechino (2008) sia a Londra (2012). Nel 2012 Lisa Carrington ha vinto nel K1 e Polly Powrie con Jo Aleh nel il 470 a vela. C’è quasi sempre l’acqua di mezzo, quando nello sport vince la terra dalle lunghe nuvole bianche.

Il re dei re del rugby All Blacks

«Venticinque passi, tre placcaggi evitati, sette secondi di tempo. Meta. La meta di Lomu. Poi Lomu volge la testa, e lo sguardo, a destra, con braccio e mano sinistri getta il pallone a terra, come per dire “è fatta” oppure “e una”, sottintendendo meta, torna verso la propria metà campo, e saluta Sean Fitzpatrick, tallonatore e capitano degli All Blacks, mano contro mano, slap five. Non un sorriso. Non una smorfia. Non una concessione. Solo pura concentrazione.

È il terzo minuto, ne mancano settantasette, ma la partita è già segnata e, vista adesso, già finita. Gli All Blacks vinceranno 45-29 e Lomu segnerà altre tre mete. Un giorno Lomu dirà che quella lì non è stata la sua meta più bella, e neanche la più bella di quella partita. Eppure resterà la meta più ammirata, la più ricordata, la più celebrata. Quella che ha rivoluzionato Ovalia. Quella che dopo nulla è stato più come prima. Quella dei venticinque passi: il primo quando Lomu si impossessa del pallone, il venticinquesimo quando si slancia per tuffarsi e schiacciare il pallone in meta, e dentro quei venticinque passi c’è tutto. Tutto Lomu.

Quella meta è un giacimento, un’eredità, un traguardo, ma anche una nuova partenza. La partenza di questo libro: la partenza della storia di Jonah Lomu e di altre storie parallele, precedenti, convergenti, legate, imparentate. Ovali».

di Marco PastonesiL’uragano nero (66thand2nd)

 

Questo articolo è stato rielaborato per Overtime ed è tratto da “lo Slalom”, una newsletter mattutina per abbonati: una selezione ragionata dei temi e dei protagonisti del giorno, con contenuti originali o rielaborati, brevi estratti degli articoli più interessanti usciti sui quotidiani italiani e stranieri, sii siti, i blog, le newsletter e le riviste specializzate, con materiale d’archivio, brani di libri e biografie. Una guida e un invito alla lettura e all’approfondimento, con montaggio a cura di Angelo Carotenuto.

Se “lo Slalom” ti ha incuriosito o se vuoi abbonarti vai a loslalom.it

 

Foto copertina – medium.com

Condividi:

Facebook
Twitter
WhatsApp
LinkedIn
Pinterest

Scrivi un commento

Articoli Recenti:

Under Pressure

L’installazione a cura dell’artista slovacco è composta da otto figure che si esercitano con la testa intrappolata in cinghie. In questo modo, Truben riflette sullo stress e sulla pressione lavorativa, che spesso la società cerca di risolvere solo con l’esercizio fisico

Leggi Tutto »
overtime film festival 2023

Overtime Film Festival 2023, ecco i vincitori

Anche quest’anno Macerata ha ospitato opere provenienti da ogni parte del mondo che trattano lo sport nella sua accezione più ampia, con una particolare e mirata attenzione alla sua componente etica e valoriale, dando spazio ai talenti italiani e internazionali e alla loro creatività

Leggi Tutto »

Autore

Segui Overtime Festival

Articoli Recenti

Torna in cima