In fila, in piedi, accalcati per ore. Impazienti. Con in mano bandiere, vessilli. Con la speranza di fare in tempo a dare l’ultimo saluto al loro idolo, Diego Armando Maradona, prima che venisse chiusa la camera ardente allestita per lui in una sala della Casa Rosada, l’edificio di Buenos Aires che ospita gli uffici del Presidente della Repubblica argentina e che si affaccia sulla celebre Plaza de Mayo. Migliaia e migliaia di persone tenute con difficoltà a bada dalla polizia costretta a effettuare cariche di alleggerimento e a usare lacrimogeni per disperdere una folla che premeva, pressava, si estendeva per chilometri e chilometri, occupava isolati e isolati. Solo pochi fortunati sono riusciti a entrare. Sollecitati dal personale di sicurezza a fare in fretta, alcuni si sono limitati a un segno della croce in rigoroso silenzio davanti al feretro coperto dalla maglia dell’Argentina, del Boca e da una grande bandiera albiceleste. Altri si sono battuti il pugno sul cuore e hanno urlato o cantato un ultimo «Grazie di tutto Diego», «Per sempre tuo», «Buon viaggio nostro eroe». Un omaggio sentito, collettivo, di un intero Paese unito nel dolore come dimostrano le immagini di tifosi rivali di Boca e River Plate che si abbracciano, ultimo miracolo laico del Pibe de Oro.
Un Paese che grazie a Maradona ha sognato, ha festeggiato la vittoria di un Mondiale e ne ha sfiorata un’altra, ha mostrato il lato bello di sé stesso dopo i tristi, bui e lunghissimi anni della dittatura militare. Maradona diceva che mentre giocava si sentiva libero, dimenticando ogni tipo di problema. La stessa cosa valeva per chi lo guardava allo stadio o in tv. E pur non essendosi mai voluto erigere a modello, è stato fonte di ispirazione o perlomeno di speranza per quanti come lui venivano da Villa Fiorito o da tanti altri luoghi del mondo pieni di povertà e di florida umanità. Per questo la gente l’ha voluto ringraziare, radunandosi nelle piazze nonostante i tempi di pandemia per sopportare meglio il dolore, per esorcizzare l’improvviso senso di vuoto. A Buenos Aires, in tutta Argentina, a Napoli, ma anche a Barcellona, dove pure Diego non aveva recitato al massimo delle sue potenzialità.
Non è la prima volta che un popolo si ferma per onorare i suoi campioni sportivi. È accaduto altre volte nella storia. Torino e tutta Italia si raccolsero il 6 maggio 1949 per salutare il Grande Torino, molto più di una squadra imbattibile. Un simbolo di riscatto, l’esempio concreto che dopo la tragedia e le privazioni della guerra il nostro paese poteva rialzarsi, tornare a gioire e, soprattutto, a essere vincente. 600.000 persone si riversarono per le strade del capoluogo sabaudo a omaggiare i calciatori, i dirigenti accompagnatori e i giornalisti morti a seguito del disastro aereo di Superga, di ritorno dalla trasferta a Lisbona e dall’amichevole giocata contro il Benfica. Il ricordo di quella squadra e il dolore per quella tragedia non sono mai svaniti, sono più vivi che mai: da pelle d’oca è la cerimonia di commemorazione che si svolge ogni 4 maggio sul colle di Superga con il capitano di turno del Torino a scandire, uno ad uno, i nomi di tutti quegli eroi in un’atmosfera magica, commovente, struggente.
Le partite ormai si giocano ad ogni orario possibile eccetto la domenica pomeriggio, i portieri non vestono più l’1 ma il 99 o altri numeri di maglia improbabili, tante tradizioni si sono perse. Ma quel rito collettivo no, è più forte del tempo, e nel 2014 ha resistito anche all’iniziale, assurda decisione della Lega Calcio di far giocare la partita Torino-Chievo proprio il 4 maggio di quell’anno, in contemporanea alla celebrazione, impedendo di fatto alla squadra del Torino di poter partecipare alla cerimonia. Si levò compatta l’indignazione dell’ambiente granata e di tutta Italia, con la Lega costretta a fare marcia indietro e a rispettare quella sacra commemorazione.
Solo l’amata e sfortunata Lady D aveva fatto raccogliere in Gran Bretagna un numero di persone superiore ai suoi funerali. Il 2 dicembre 2005, sotto un cielo plumbeo, Belfast si unì nell’ultimo saluto al suo figlio prediletto e mai rinnegato nonostante 44 anni di lontananza, George Best. Oltre cinquecentomila persone omaggiarono il feretro dell’ex campione, avvolto nella bandiera dell’Irlanda del Nord e circondato da corone di fiori rossi, come la maglia del Manchester United. Best, curiosamente morto come Maradona un venticinque di novembre. Un calciatore che faceva impazzire gli avversari in campo con il suo dribbling funambolico, e allo stesso tempo esaltava i suoi fans con le sue con le sue frasi celebri e iconiche. Con i fasti di una vita spesa tra eccessi, follie e generosità. La sua città, che poi gli intitolerà l’aeroporto, seguì in massa la cerimonia funebre, accompagnata dal suono delle cornamuse e trascorsa tra gli aneddoti raccontati da familiari ed ex compagni di squadra. Le esequie furono trasportate dalla tenuta di Creghag, dove viveva la sua famiglia, al castello di Stormont: la sede del Parlamento nazionale dell’Irlanda del Nord, la location più prestigiosa possibile. Il massimo riconoscimento per chi come lui ha donato qualcosa di speciale, emozioni incredibili e indelebili, nonostante una carriera durata al top pochissimi anni e culminata con la vittoria della Coppa Campioni e l’assegnazione del Pallone d’Oro nel 1968.
Tributi di questo genere non sono stati riservati solo a calciatori. Tutto il Brasile si fermò pietrificato dal dolore per la morte di Ayrton Senna, avvenuta a Imola in quel drammatico weekend della primavera 1994. Un pilota fortissimo e veloce, che entusiasmava per le vittorie, le pole positions, i duelli all’ultimo sangue con Alain Prost. Un uomo sensibile, generoso e malinconico che, a differenza di Maradona, proveniva da una famiglia abbiente e sentiva forte il dovere di non dimenticare le masse sterminate delle favelas, i disperati delle baracche a poche centinaia di metri dalle residenze lussuosissime. «Quando prendo la bandiera verdeoro dopo una vittoria, la mostro per chi non ha niente, per chi è orgoglioso di essere brasiliano ma sogna e immagina un futuro differente, lontano dalla miseria, dalla angoscia, dalla assenza di qualunque speranza».
Per messaggi come questi, per le innumerevoli opere di beneficenza in cui si prodigava ma non pubblicizzava, era amatissimo dal suo popolo che si identificava in lui. Meglio di ogni altra cosa descrive questo sentimento l’episodio raccontato nel libro “Senna. In viaggio con Ayrton” (Imprimatur editore) dall’autore Leo Turrini, l’unico giornalista italiano inviato a seguire il funerale in Brasile e imbarcatosi a Parigi destinazione San Paolo su un volo della compagnia brasiliana Varig. «La hostess non si limita a controllare la mia carta d’imbarco. Senza dire una parola, curiosamente mi accompagna fino al posto in business class. È una forma di cortesia vagamente incomprensibile. Poi, di colpo, capisco. Subito dietro la mia poltrona, è stato creato uno spazio privo di sedili. Li hanno rimossi. Sul pavimento, è adagiata una cassa verticale, avvolta in una bandiera del Brasile, dai classici colori verde e oro. La hostess sta piangendo. Fatica a trovare le parole. Sa, mi sussurra, non ce la sentivamo proprio di rispettare le norme di viaggio. Non potevamo riportarlo a casa chiuso nella stiva, un bagaglio tra altri bagagli. Lui, no. Ayrton, no». Nessuna rimostranza, tutti i passeggeri d’accordo. Una veglia funebre durata tutto il tempo del viaggio. In un silenzio surreale interrotto sporadicamente da qualche singhiozzo.
Storie diverse di sportivi diversi che hanno creato un tutt’uno, una simbiosi con la loro gente. Sportivi dal carisma innato, portatori, a volte anche inconsciamente, di messaggi profondi. Che calciando un pallone o guidando una Formula Uno hanno saputo interpretare le istanze, i desideri, i sogni, l’essenza intima di interi popoli.
Foto copertina – Il San Paolo di Napoli, prontamente ribattezzato in onore di Diego Armando Maradona. (sportmediaset.it)