Da sempre gli spazi urbani si sono dovuti confrontare con la quotidianità sportiva o con l’eccezionalità dei grandi eventi. Dallo Stadio Panatenaico di Atene e l’Ippodromo di Costantinopoli, primi stadi progettati a forma di ferro di cavallo, alla successiva evoluzione delle arene circolari, come il Colosseo, pensiamo a quanto i mega eventi sportivi dell’antichità degli ultimi decenni abbiano contribuito a cambiare la sagoma e le architetture dei luoghi.
E ancora, riflettiamo su come siano cambiati, rispetto a ieri, i criteri del design nella costruzione di edifici dedicati, un tempo, solamente a ospitare le competizioni sportive e immaginati invece oggi come luoghi di aggregazione, di condivisione, multifunzionali, ai quali si chiede di diventare occasione di socialità allargata, infrastrutture urbane in grado di assumere significati iconici.
Ecco che allora diventa interessante andare a vedere la traduzione di queste aspirazioni nella concretezza delle costruzioni.
I più grande cambiamenti nella progettazione degli stadi negli ultimi due decenni hanno riguardato i sistemi di copertura – gli stadi all’aperto comuni fino agli anni 2000 hanno infatti lasciato il posto a stadi con coperture giganti – le facciate – elementi di architettura che appartengono anche alla città, interfacce e volti degli stadi stessi i cui sistemi portanti vengono spesso lasciati a vista e il cui design, in generale in strutture di così larga scala, ne determina l’identità – e infine la performatività sostenibile.
La questione della grande attenzione sulla causa ambientale, filtrata anche nell’architettura sportiva contemporanea, mette in qualche modo sotto pressione gli edifici esistenti e futuri in nome del “verde”. Divenute obbligatorie la raccolta dell’acqua, i pannelli solari e la gestione automatica dei rifiuti, vengono spesso abbinate a schemi di pianificazione ispirati all’urbanistica verde con l’obiettivo di aumentare la capacità climatica dell’edificio avvolgendolo in un’eco-urbanità.
E’ evidente come nella costruzione di nuovi stadi, dominata da fattori interni ai progetti (economia, sicurezza, logistica ecc…), l’intento sarebbe più semplice da raggiungere se invece di essere misurato rispetto all’impatto totale che ha sul territorio, lo si potesse considerare isolato dal contesto urbano più ampio.
Due, soprattutto, le criticità: gli enormi parcheggi e la tendenza, tutta anni ‘90, alla suburbanizzazione degli stadi (l’Allianz Stadium di Torino, per esempio, ha ridotto la capienza del pubblico rispetto allo Stadio Comunale, ha rivestito l’intera facciata con pannelli solari, ma è stato criticato per non essere in linea con il modello di città compatta associato all’urbanistica sostenibile odierna) ma imprescindibile anche il confronto con i due concetti emergenti del riuso adattivo e dell’architettura di manutenzione. Il primo, avanguardia della conservazione, intende combinarne le tecniche con la modernizzazione. Il secondo che si sta diffondendo attraverso l’uso del termine ‘riparazione’.
Entrambi possibili strade da percorrere in concreto in prospettiva di una progettazione circolare dell’architettura del calcio ma esclusivamente a condizione, da un lato, che il mondo dello sport si prenda più cura dei propri impianti con maggiori investimenti in manutenzione e, dall’altro, che le strutture esistenti siano considerate parte della cultura sportiva affinché esse possano sopravvivere in quanto oggetti di progetti pilota o buone pratiche di gestione e sviluppo.
Foto copertina – Il Tottenham Hotspur Stadium, il nuovissimo impianto che dal 2019 ospita le gare casalinghe degli Spurs. (Photo/Map: Arne Müseler / arne-mueseler.com / CC-BY-SA-3.0)