Lo sport abbatte barriere e pregiudizi, contribuisce a cambiare i destini del mondo. L’abbiamo sostenuto e rimarcato tante volte durante gli incontri organizzati da Overtime Festival. Cercando sempre di non enfatizzare il concetto, di stare alla larga dalla scontata retorica, consapevoli che anche il ruolo salvifico dello sport ha dei limiti, non può fare miracoli geopolitici, va incontro a inevitabili fallimenti.
Ad avere sotto questo profilo un grande successo fu sicuramente la tournée che nel 1973 vide protagonista una selezione piuttosto improvvisata di rugbisti italiani nel Sudafrica dell’apartheid. Una storia incredibile e per certi versi avventurosa, poco conosciuta anche negli ambienti sportivi, magistralmente raccontata dal giornalista di Repubblica Massimo Calandri nel libro “Non puoi fidarti di gente così. Storia della squadra di rugby che sfidò l’apartheid” (Mondadori) presentato anche a Macerata durante l’edizione 2022 di Overtime.
Il Sudafrica, a causa della sua scellerata politica di segregazione razziale, nel 1973 è uno Stato soggetto al boicottaggio internazionale. Le autorità del Paese cercano allora di alleviare un isolamento che non è solo politico ed economico ma anche sportivo, invitando a giocare nei loro stadi all’avanguardia le Nazionali di rugby, uno sport di cui i sudafricani sono riconosciuti maestri e valorosi interpreti. Ricevono cortesi ma inequivocabili rifiuti da ogni parte del mondo. Con un’unica eccezione, quella rappresentata dall’Italia e dalla sua Federazione Rugby che decidono di inviare una formazione previo il rispetto di un’unica vincolante condizione: poter sfidare anche i Leopards, la selezione sudafricana bantu, composta esclusivamente da giocatori neri.
Il libro di Calandri rappresenta innanzitutto uno straordinario affresco di un Paese sconfinato, dalle molte contraddizioni, assai eterogeneo, con grandi città e centri rurali, sublimato da paesaggi mozzafiato e ricchezze naturalistiche inestimabili. Soprattutto dominato dalle ingiustizie, con i bianchi – boeri, inglesi, ma non dimentichiamocelo mai anche tanti immigrati di origine italiana – a spartirsi lavoro, privilegi e ricchezza e la popolazione nera a essere privata anche dei più elementari diritti civili. Panchine vietate, intere zone delle città interdette alla residenza e addirittura al transito, autobus separati. Questo devono sopportare quotidianamente ai quei tempi i cittadini di etnia zulu, xhosa, ndebele, solo per citare le principali. Questo è lo scenario che si trovano di fronte i giovani allibiti rugbisti italiani che decidono ben presto di violare l’assurdo divieto imposto ai bianchi di rivolgere la parola ai neri, cercando nei limiti del possibile di fraternizzare, quantomeno di creare un contatto umano per il tramite della palla ovale.
Quella raccontata è anche la storia dell’amore folle, incondizionato, travolgente dimostrato dai partecipanti alla tournée per lo sport e per il rugby. Nel 1973 siamo lontanissimi dai fasti del Sei Nazioni, il movimento rugbistico in Italia è ancora agli albori, poco organizzato e sviluppato, con una base irrisoria di praticanti, concentrati a Roma, Frascati, Genova, Piacenza, in Veneto e in altre poche piazze italiane. I ragazzi italiani non sono professionisti, sono studenti o lavoratori, del gruppo fanno parte anche alcuni minorenni. Sono stati in molti casi inseriti nella lista dei partenti solo perché altri, sulla carta più pronti di loro, hanno rinunciato alla lunga trasferta, per impegni universitari, paura, tante altre legittime motivazioni. Hanno tutti una scarsa esperienza internazionale. Vengono superficialmente considerati indisciplinati, gente di cui non ci si può fidare. Sono fisicamente impreparati, piccoli e gracilini e sanno di dover affrontare i giganti sudafricani, tra i giocatori più forti, ruvidi e violenti al mondo.
Eppure non rinunciano, fanno di tutto per esserci, per coronare il sogno di calpestare quei celebri prati verdi sudafricani, “perché quando ci ricapita?”. C’è chi rinvia il matrimonio, le sessioni di esame, chi chiede e ottiene con molto pathos il permesso di partire dai propri genitori.
Gli Italiani, guidati dal capitano Marco Bollesan, alla fine affrontano con coraggio, feroce determinazione e un pizzico di incoscienza giovanile tutte le nove partite programmate in meno di un mese, intervallate da impegni di rappresentanza e massacranti trasferimenti tra una sede e l’altra. Alcune le perdono malamente, altre di un soffio, anche a causa di arbitraggi fin troppo casalinghi. Con il passare dei giorni quel gruppo si cementifica, si compatta dentro e fuori dal campo. Con orgoglio reagisce, traendone ulteriore linfa, a quel coro di scherno “Spaghetti!” immancabilmente intonato dai Boeri assiepati sulle tribune. Il gioco migliora, i progressi sono notevoli, il pacchetto di mischia fa faville oltre ogni più rosea aspettativa.
Arriva anche una vittoria, proprio contro i Leopards. Ma in quella giornata a Port Elizabeth il risultato è la cosa che conta meno. I ragazzi italiani, a rischio di far scatenare un serio incidente diplomatico, impongono agli organizzatori la presenza al Terzo Tempo dei giocatori bantu, inizialmente non contemplata. I festeggiamenti, sfrenati, proseguono nella township in cui è situato lo stadio per tutta la notte, una notte in cui non si bada al colore della pelle.
Come ricorda più volte Calandri, i protagonisti di questa storia grazie a quella magnifica avventura sudafricana sono partiti dall’Italia ragazzi e sono tornati in patria uomini.
Foto copertina – Un particolare dalla copertina del libro di Massimo Calandri. (Mondadori)