Lake Placid 1980, il miracolo sul ghiaccio

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newspaper-cropped“A meno che il ghiaccio non si sciolga o a meno che la squadra americana non compia un miracolo, come fece quella del 1960, ci si attende che i russi vincano la medaglia d’oro per la sesta volta negli ultimi sette tornei”. Le parole di Dave Anderson, columnist del New York Times, sono la fotografia di quella che fu la vigilia di una delle più incredibili imprese della storia dello sport. Celebrata, evocata, qualche volta anche banalizzata oltre ogni limite. La verità è che c’è sempre una linea che fa da spartiacque tra un prima e un dopo anche nello sport, tra la semplice cronaca sportiva e lo sdoganamento di una parola che, anche nell’America più profonda, poteva essere usata in relazione ad una partita di hockey. Sto parlando della parola miracolo, perché nessuno è mai riuscito a trovare una parola migliore per descrivere la più folle serata della storia delle Olimpiadi invernali.

Quella sera all’Olympic Center di Lake Placid da una parte c’erano loro: i sovietici. Un sestetto da sogno, in cui coach Tihonov poteva permettersi di schierare contemporaneamente il più forte portiere di tutti i tempi, Vladislav Tretjak, e giocatori del calibro di Boris Mihajlov, Aleksander Malcev oltre al giovane astro nascente dell’hockey Vjačeslav Fetisov. Tutti entrati nella hall of fame dopo il ritiro senza batter ciglio da parte di alcun esperto, tutti circondati da un alone di mistero che non faceva altro che aumentare la paura nell’avversario. Un’oscura fama dovuta al fatto che negli anni pre-Perestrojka i russi erano tutti bloccati nel loro campionato, senza luci della ribalta, logorio della NHL e denaro facile. Tutti dilettanti, ma solo sulla carta. Nella realtà, campioni compiuti. Erano enormi, allenati in modo scientifico, che fosse vero o no erano anche freddi, freddissimi, macchine da guerra assetate dell’unica cosa che avesse per loro davvero senso nella vita: una medaglia d’oro olimpica.

Dall’altra parte, c’era la truppa di mister Herb Brooks, la solita sgangherata squadra americana pre-dream team, composta da giocatori dilettanti con età media di appena 21 anni. Un mix di giocatori delle leghe minori e talenti (o presunti tali) delle università. Nessun professionista, nessuna scelta del draft, nessuna presenza nella National Hockey League. Prima di quella partita, i nomi di Neal Broten, Ken Morrow, Mike Ramsey o Dave Christian non dicevano niente a nessuno. Al massimo, il cognome del loro capitano Mike Eruzione poteva far sorridere qualche italo-americano che quella sera si era sintonizzato sulla leggendaria telecronaca di Al Michaels. Una telecronaca a cui la ABC non volle dare neppure la ribalta della diretta, data la prevedibilità dell’incontro. Fu trasmessa in differita, come un anonimo match della fase eliminatoria. La maggior parte dei giocatori veniva dall’Università del Minnesota, pescati personalmente da coach Herb Brooks. Un uomo del nord, una persona vera, un motivatore e, allo stesso tempo, anche un perdente. Escluso dalla selezione americana a pochi giorni dalle Olimpiadi di Squaw Valley nel 1960 e costretto a vedere il trionfo dei compagni in televisione. Poi niente draft, niente NHL, niente soldi, una carriera anonima nelle serie non professionistiche e poi di nuovo college, per ricominciare da allenatore, per potersi riguadagnare la selezione olimpica e di nuovo il sogno di vincere la medaglia d’oro.Miracle-on-Ice-©Joe-Lippincott-1980

All’inizio, c’era fiducia attorno alla nazionale americana. Brooks era spavaldo nelle dichiarazioni; la popolarità dell’hockey, complice la fresca entrata in scena di quello che sarà il talento più grande della storia di questo sport, il canadese Wayne Gretzky, era in netta ascesa. Anche il Madison Square Garden si riempì per l’amichevole pre-olimpica proprio tra USA e URSS il 9 febbraio 1980. E invece fu uno shock. 10-3 per i sovietici e tutti a casa a testa bassa. Allontanate le luci della ribalta, la nazionale USA si ricompattò, crescendo poco alla volta, e si fece notare dagli osservatori più attenti per il gioco disciplinato e dinamico. Tutta fisicità, poca tattica e tanto, tanto cuore che le consentì un pareggio in extremis con la Svezia, una sudata vittoria contro la Germania Ovest e una sorprendente vittoria con la nettamente favorita Cecoslovacchia. Gli USA si guadagnarono così in crescendo l’accesso al girone finale del torneo olimpico. Per la stampa, il miracolo era stato già compiuto, il bello però doveva ancora venire. L’URSS invece, manco a dirlo, fu uno schiacciasassi: solo canadesi e finlandesi salvarono la faccia nella carneficina, concedendo una sconfitta onorevole. Il resto del menù fece segnare infatti 8 gol alla Polonia, 16 al Giappone e addirittura 17 all’Olanda. Numeri da capogiro. Vincere, anzi stravincere. Non c’era altro verbo che i russi sembravano conoscere.

eruzione_auction-copyE poi c’era il resto del mondo. La guerra fredda che incombeva sulle teste dei giocatori, mai così ingombrante a tre mesi dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, con il presidente americano Jimmy Carter che proprio in quei giorni stava valutando se boicottare o meno le Olimpiadi estive di Mosca. Un nuovo maccartismo rampante che, complice la macchia mai lavata di quanto accadde nella finale olimpica di basket di Monaco 1972, accolse le squadre in campo il 22 febbraio all’Olympic Center di Lake Placid in un tripudio di bandiere americane. Contro tutto e tutti, il pubblico ci credeva. Ci credevano i giocatori, ma soprattutto ci credeva fortemente il severo coach Herb Brooks che, come poi raccontò alla stampa, accompagnò la sua squadra in campo con un memorabile discorso iniziato con queste parole: “Se nell’hockey contasse solo il talento, voi non vincereste mai…”. Quello che disse dopo fu un segreto che si portò nella tomba, ma possiamo immaginarlo. I miracoli forse non esistono; accadono solo a chi veramente se li sa guadagnare.

Poi la cronaca del match. Gli americani, nonostante tutto, andarono subito sotto, come gli era accaduto in tutte le partite preliminari. Vladimir Krutov infilò un assist di Aleksei Kasatonov portando i sovietici in vantaggio per 1-0 e, dopo l’illusorio tap-in di Buzz Schneider che diede il pareggio agli americani, l’Urss ristabilì prontamente le gerarchie tornando nuovamente in vantaggio con un gol di Sergei Makarov.

Sotto di 2 a 1, cominciò la partita perfetta del carneade portiere a stelle e strisce Jim Craig che parò tutto, oltre ogni limite posto dalla fisica e dalla logica, consentendo alla propria squadra di restare in partita. Fino a che, a pochi secondi dalla fine del primo tempo, accadde l’incredibile: un tiro senza troppe pretese di Dave Christian venne smanacciato dal portiere sovietico Tretiak sulla mazza di Mark Johnson, che riportò miracolosamente gli USA in parità.

Furibondo l’allenatore sovietico Tikhonov perse le staffe. Gli schemi erano giusti, i giocatori erano superiori agli avversari, le divise rosse sembravano essere il doppio in campo e la tattica era stata preparata a tavolino in modo perfetto. Il match era stato preparato invece in modo opposto da Herb Brooks che, come suo solito, preferì tralasciare la tattica e concentrarsi sugli aspetti motivazionali e sulla tecnica di pattinaggio. Allenamenti psicologicamente e fisicamente distruttivi in stile Full Metal Jacket, poiché Brooks era consapevole che la sua squadra era inferiore e che il trucco per potersela giocare era quello di sorprendere i sovietici atleticamente e psicologicamente, non mollando un centimetro. Anche giocare sporco, ma fare di tutto per restare in partita almeno per due terzi di gara, per poi buttare il cuore oltre l’ostacolo nell’ultimo terzo. Lì si che serviva un miracolo. Tikhnov non capì quanto stava accadendo e ritenne che, se doveva esserci un errore, questo allora doveva essere umano e decise, quasi per punizione, di sostituire Tretiak col portiere di riserva Vladimir Myschkin. Una mossa che sorprese molti giocatori di entrambe le squadre. Ciò contribuì a rendere ancora più confuse e concitate le successive fasi di gioco nel corso del terzo tempo, con gli americani in costante inferiorità numerica a tener duro, aggrappati alle maglie degli avversari.  Un botta e risposta tra Aleksandr Malcev e Mark Johnson portò il match sul 3-3. Ed è qui che la cronaca della partita finisce per fare posto alla leggenda.

1980-usa-hockey-gold-001160445-copyA dieci minuti dal fischio finale, Mark Pavelich passò il disco al capitano statunitense Mike Eruzione, che si ritrovò smarcato e protagonista dell’unico, incredibile errore difensivo dei campioni di tattica sovietici. Immensi, ma quella sera non in grado di leggere la partita in corso d’opera. Eruzione era lì, come non era mai accaduto a nessun altro nel corso del torneo, solitario nell’high slot (l’area subito di fronte alla porta, prima della linea blu). Eruzione probabilmente vide tutta la sua vita, quella dei suoi compagni, di coach Brooks e dell’America intera passargli davanti agli occhi quando scagliò il disco oltre Myshkin. Con i difensori impietriti nell’indecisione di indietreggiare per difendere la porta o di aggredire disperatamente l’avversario. 4-3 per gli USA.

Cominciò l’assedio dei sovietici, con gli americani impegnati in un catenaccio degno della nostra migliore tradizione. Craig parò l’inverosimile, i difensori si immolarono di fronte ai dischi lanciati dagli avversari. Fu chiaro a tutti che in gioco non c’era, in quel momento, solo una partita di hockey. Davide contro Golia, Ovest contro Est, cuore contro tecnica e muscoli. Un assalto disperato, con il coach Tikhonov che compì l’ultima disperata scelta, quella di rinunciare al portiere per avere un sesto giocatore di movimento. Una scelta umiliante per l’URSS, che mai si era trovata in svantaggio a pochi minuti dalla fine e mai aveva vissuto la sensazione del dentro-fuori. Al punto che i giocatori sovietici, come dichiararono alla stampa in seguito, non sapevano neppure come schierarsi in campo con l’uomo in più, il che paradossalmente finì per ritorcerglisi contro. Dagli spalti cominciò a risuonare spontaneamente un coro destinato ad accompagnare negli anni successivi ogni impresa sportiva a stelle e strisce: “IU-ESS-EI! IU-ESS-EI!”. A pochi secondi dal termine, il telecronista Al Michaels cominciò il conto alla rovescia, accompagnandolo con parole rimaste negli annali dello sport:

“Undici secondi, vi restano dieci secondi, stanno contando alla rovescia in questo momento… Morrow passa a Silk, restano cinque secondi di gioco! Credete nei miracoli? Si!”

Fu l’apoteosi. Era avvenuto l’incredibile, i giocatori sovietici esausti guardavano ammirati i loro colleghi a stelle e strisce impegnati nel giro di campo tra le urla di gioia del pubblico. La vittoria rimarrà indelebile in tutti coloro che l’hanno vissuta quella sera ed avrà anche una forte valenza politica, dato che probabilmente spinse Carter al boicottaggio delle successive Olimpiadi. Per coach Brooks fu la rivincita perfetta, anche se dovette faticare non poco per tenere i giocatori con i piedi per terra e la testa sulle spalle in vista del successivo match. Eh già, perché il match con l’URSS non fu, al contrario di quello che molti pensano, la finale, ma solo la prima partita di un girone a 4 in cui erano inserite anche Svezia e Finlandia. Il meccanismo perverso del regolamento parlava chiaro: per vincere la medaglia d’oro bisognava battere la Finlandia due giorni dopo, con le ossa rotte e la testa in poltiglia. Non esistono miracoli a metà. Eruzione e compagni ce la fecero, pur essendo passati per l’ennesima volta in svantaggio. 4-2 per gli USA e medaglia d’oro. Che capitan Eruzione rifiutò di mettersi dal collo se non fosse salita con lui sul podio l’intera squadra. Un’eccezione diventata poi prassi alle Olimpiadi.source_410_76845

Cosa accadde in seguito? Per i sovietici arrivò da lì a qualche anno la Perestrojka ad insegnare che l’isolamento, anche dal punto di vista sportivo, era incomprensibile oltre che deleterio. La Federazione consenti gradualmente ai giocatori di inseguire il sogno del professionismo, anche fuori dall’Unione Sovietica. Per la squadra USA, nominata in blocco “sportivo dell’anno” da Sport Illustrated (in seguito il “miracolo sul ghiaccio” fu anche eletto dalla rivista come il momento più indimenticabile dell’intera storia dello sport americano), si spalancarono le porte dei contratti milionari della NHL. Nessuno di loro deluse le aspettative; forse non erano giocatori mediocri o inesperti, forse semplicemente avevano bisogno che qualcuno credesse in loro. Anche coach Herb Brooks si tolse la soddisfazione di allenare in NHL, ma lo fece solo per poco. Tornò infatti dopo qualche anno ad allenare le selezioni studentesche e nazionali (seguì tra l’altro la Francia alle Olimpiadi del 1998 e di nuovo gli USA 4 anni dopo). Brusco dentro e fuori dal tempo, si sentiva inadatto al mondo patinato dei media, del denaro e dell’effimera gloria della NHL. Chi rifiutò ogni contratto milionario e si ritirò per sempre dall’hockey, giocando di fatto quella sera l’ultima partita della sua carriera, fu Mike Eruzione. Il simbolo e il capitano di quella eroica squadra, nonché l’autore del punto decisivo. Come ebbe a dire commovendosi di fronte alla stampa, nulla avrebbe potuto eguagliare l’emozione di quella Olimpiade.

Antonio Scottino per Storie all’Overtime

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Un commento

  1. […] “Do you believe in miracle?” verrebbe da dire pensando al film di Gavin O’Connor che ha segnato un’epoca e che racconta la straordinaria partita delle Olimpiadi invernali del 1980 a Lake Placid tra USA e Unione Soviet…. […]

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