Donne in Afghanistan, l’emancipazione su due ruote

Donne in Afghanistan, l’emancipazione su due ruote

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Ci sono uomini che esercitano il potere della propria libertà personale vituperando il patrimonio culturale altrui, come gli esagitati di Roma al seguito del Feyenoord. E poi ci sono donne la cui cultura ereditata non permette di avvalersi delle più scontate libertà individuali, come le cicliste afgane di Abdul Sadiq. Sadiq, nome semi-sconosciuto al panorama sportivo internazionale, è un ex professionista delle due ruote; l’unico dell’intera Repubblica Islamica dell’Afghanistan. La sua carriera in sella ad una bici non ha lasciato strascichi di memoria indelebili fra gli addetti ai lavori; ci riuscirà sicuramente nelle vesti di allenatore, e non solo tra gli sportivi, ma fra l’intera comunità internazionale che ha a cuore la piena espressione dei diritti della persona.

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Abdul Sadiq è l’attuale allenatore dell’unica squadra ciclistica femminile presente in Afghanistan. Un progetto sportivo nato da appena tre anni, nel momento in cui la figlia di Abdul ha inforcato la sella e iniziato a pedalare all’età di dieci anni. Una circostanza assai banale e del tutto insignificante se vista con degli occhi occidentali, un’occasione marcata dai caratteri dall’eccezionalità per una donna afgana. Dopo la caduta del regime integralista talebano nel 2001, infatti, lo Stato islamico non ha esattamente completato i processi di “democratizzazione” e stabilizzazione previsti dall’operazione statunitense “Enduring Freedom”, mantenendo inalterate molteplici privazioni delle libertà individuali della popolazione. Per le donne, soprattutto, è ancora di fatto pericoloso, se non vietato, uscire di casa in assenza di un uomo. Figuriamoci farlo con una bicicletta.

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Da buon padre di famiglia, come già fatto in precedenza con la figlia, Sadiq si è messo alla guida di alcune ragazze afgane amanti dello sport e della bici, raggruppandole in team ed educandole ai fondamentali del ciclismo. La sua dedizione ha reso possibile la costituzione di una vera e propria squadra composta da quindici atlete, sei delle quali fanno attualmente parte dell’equipe nazionale. Dall’alba e per 6 giorni alla settimana, allenamenti mirati su molte delle impraticabili sedi stradali del Paese. Obiettivo primario (che assume la connotazione del sogno): i Giochi Olimpici che si terranno a Rio de Janeiro nel 2016. Un traguardo prestigioso ma del tutto secondario, se considerate le condizioni che le atlete si trovano a fronteggiare quotidianamente. Disapprovazione in famiglia, insulti, intimidazioni e aggressioni lungo le strade durante gli allenamenti, carenza di materiale tecnico di livello. Unico sostegno (anche per ciò che concerne l’equipaggiamento), la collaborazione della statunitense Shannon Galpin, che ha dato vita al progetto “Moutain2Mountain” appositamente per garantire la sopravvivenza del percorso sportivo delle cicliste afgane.

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Ad appena pochi anni dall’ideazione del progetto, il team rosa a due ruote di Abdul Sadiq ha già cominciato a segnalarsi per i primi successi, seppur a livello amatoriale macro-regionale, battendo selezioni del Pakistan e del Bangladesh. Obiettivamente, non sappiamo se queste ragazze riusciranno mai a raggiungere organizzazione e prestazioni idonei all’accesso alle competizioni olimpiche; ce lo possiamo soltanto augurare. Salpiamo di buon grado dagli affollati porti della retorica e del moralismo, che prevedrebbero in tali casi l’accostamento gerarchico delle medaglie a cinque cerchi al miglioramento delle condizioni esistenziali o il parallelismo tra competizione sportiva e battaglia per la quotidianità. Non lo facciamo per andare controcorrente, né tantoméno come esercizio di stile. Semplicemente ci rendiamo conto, a Storie all’Overtime, di non poter percepire compiutamente cosa significhi combattere così strenuamente e in condizioni talmente avverse contro l’ignoranza e il pregiudizio. Non abbiamo mai sfidato faccia a faccia imposizioni e conseguenti privazioni di tale spessore, a rischio della nostra incolumità. Non abbiamo mai inforcato la sella sulla strada che, dall’emarginazione, conduce all’emancipazione. Piuttosto, mettiamo a disposizione i nostri spazi per quelle rivoluzioni sportive che intendono sbarazzarsi di sistemi pregiudizievoli delle libertà individuali. Con il fervido desiderio di vedere i pedali afgani portare queste ragazze lontano. Lontano da tutto ciò che non permetta loro di sentirsi esattamente uguali a tutti gli altri esseri umani sulla terra.

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