Cinema e sport, un binomio nel complesso fortunato e prolifico. Spesso addirittura premiato. Un rapporto che è riuscito in molteplici casi a convolare a giuste nozze, quando la cerimonia è stata ben orchestrata e gli invitati, di rimando, si sono ritrovati emotivamente incuriositi. La settima arte agisce sullo sport in modalità trasversale, andando a sfruttare capillarmente tutte le esigenze di identificazione di un vasto pubblico. La resa è riscontrabile e verificabile su sportivi e non, addetti ai lavori o semplici appassionati cinefili. Esemplare, per chi scrive, un piccolo aneddoto personale di recente accadimento. Nel bel mezzo di un corso di dizione e speakeraggio tenuto da uno dei massimi doppiatori nazionali, è capitato di dover leggere agli astanti colleghi allievi un breve testo scelto a piacimento dell’oratore. La scelta della lettura è stata immediata e fisiologica, in quanto ricaduta su di un testo sfortunatamente mancato ad un precedente corso, questa volta teatrale, dieci anni prima: un estratto del monologo affrontato da Al Pacino nel film “Any Given Sunday” (1999, titolo italiano “Ogni maledetta domenica”). Una scelta pienamente ripagata dal gradimento della platea. Pacino, nei panni del trainer di football americano Tony D’Amato, si trova nell’occasione a dover vaticinare e motivare la squadra dei Miami Sharks a pochi minuti dall’inizio di una sfida playoff da dentro o fuori. Al netto della traduzione italiana sicuramente non totalmente aderente all’originale, ne esce una parabola sportiva altamente godibile, in molti tratti riconducibile ad un angusto flusso di coscienza sull’esistenza umana. La cornice è una pellicola di Oliver Stone che, nella sua leggerezza, regala uno spaccato ritmato e scarsamente melenso delle più importanti dinamiche gravitanti intorno alla conduzione e alla gestione di una squadra sportiva professionistica.
La lista potrebbe essere estesa per pagine e pagine del blog. Avendo come estremità la rude fantascienza e la distopia fagocitante della lega di “Rollerball” (1975 di Norman Jewison) da una parte, e la controversa storiografia di “Munich” (2005, Steven Spielberg) dall’altra. Preferiamo invece, qui e per il momento, fare una riflessione sul filone pugilistico. Probabilmente, alla luce di ciò che la settima arte è stata capace di produrre fino ad oggi e del successo trasversale raccolto, il pugilato è la disciplina sportiva che maggiormente le si confà. E’ forse una questione di identificazione e vicinanza con personaggi raccolti dalla strada e indirizzati verso orizzonti meno bui. E, quindi, capaci di evocare empatia con il riscatto dagli impedimenti e con il superamento degli ostacoli impressi nell’esistenza e nella quotidianità. O forse è semplicemente un caso, dovuto all’abilità dei registi che si sono succeduti nella trattazione della disciplina. Sta di fatto che la nobile pratica della boxe vanta nel suo carniere capolavori cinematografici assoluti. A partire da “Lassù qualcuno mi ama” per arrivare al recente “Alì”, passando per eccellenti opere quali “Toro scatenato” e “Million dollar baby”. Il tutto volendo volontariamente dimenticare campioni di incassi e premi come “Cinderella Man” e la saga “Rocky”, che secondo noi si posizionano, come valore assoluto, su di un livello più basso per molti motivi.
La magia del legame tra cinema e pugilato, per altro consacrata dal sigillo del maestro Kubrick (“Il bacio dell’assassino” 1955), è un altro di quegli stimoli che affascinano e trascinano Overtime. A rendere un dovuto, costante omaggio al binomio cinema-sport sulle pagine di questo blog. Ma soprattutto nell’appuntamento del prossimo ottobre con la seconda edizione dell’OvertimeFilmFestival.