Nella sua prima vita Carl Weathers è un giocatore di football americano: a ventidue anni firma il suo primo contratto da professionista con gli Oakland Raiders, gioca linebacker, ha fisico da Bronzo di Riace e velocità notevole, sa farsi valere, ma dopo un solo anno emigra nella lega canadese, dove c’è un campionato più soft e Carl può coltivare il suo grande sogno – tranquilli, ora ve lo diciamo.
In Canada ci rimane tre anni, ne ha appena compiuti ventisei quando decide di spalancare la porta alla sua seconda vita. Sliding doors, appunto. Così una sera chiama una babysitter perché si occupi dei due figli piccoli, invita la moglie – Mary Ann Castle – al ristorante e prima del dolce le confessa che lui si sente pronto per Hollywood – eccolo, il sogno -, è una vita che pensa di essere tagliato per il cinema e di prendersi una fracassata di botte rincorrendo un pallone ovale non ne può più.
Ha già fatto un paio di comparsate non accreditato, si è procurato un buon agente, assicura la moglie di avere i contatti giusti, ha capito dove indirizzare la sua vita. Mary Ann lo sostiene, ok amore, se è la tua strada seguila, si sorridono complici, finiscono il dolce e il giorno dopo Carl Weathers non è più un giocatore di football e diventa un attore. Mary Ann e Carl divorzieranno dieci anni dopo, causa svariati tradimenti di lui.
Comunque: gli ci vuole un anno per cominciare a guadagnare qualcosa. Piccoli ruoli nelle serie televisive dell’epoca – da “Good Times”, prima sitcom con afroamericani come protagonisti, fino a “L’uomo da sei milioni di dollari”, dove si ritaglia momenti marginali, ma il suo faccione da duro – clamorosi baffi anni ‘70 inclusi – comincia a girare e ad essere riconoscibile. Tenacia e determinazione non mancano a Carl, che si presenta a tutti i provini, si vede sbattere in faccia molte porte ma è convinto – oh, se è convinto – che prima o poi arriverà il bacio della buona sorte.
La stessa ammirevole perseveranza di Carl muove l’ambizione di un ragazzo con una faccia sghemba che sogna di fare l’attore, ci prova e riprova, nessuno lo vuole e intanto sguazza nella miseria con la moglie, in un appartamento dove ci si gela perché il riscaldamento costa e Sylvester Stallone di soldi non ne ha tanto che – tirate fuori i kleenex – un giorno non ha nemmeno un paio di banconote per mangiare e allora vende il suo cane ad un passante. Il sacrificio – dolorosissimo – gli porta in tasca 25 dollari.
Quella sera – è il 24 marzo del 1975 – Stallone compra il biglietto in un cinema di New York dove danno il match di pugilato tra Muhammad Alì e Chuck Wepner, nello scenario del Richfield Coliseum di Richfield Township, in Ohio. Sylvester parteggia per Wepner, che incassa, barcolla, ma non molla mai. Lo chiamano il “Sanguinolento di Bayonne”, la città dove è nato, nel New Jersey, per la facilità con cui si ferisce al volto. Cinque mesi prima Alì ha battuto George Foreman a Kinshasa, in un combattimento che è già leggenda. Wepner è selvaggio quanto basta e ha coraggio da vendere. Viene dalla gavetta, nulla teme. Al nono round gli capita l’occasione di tutta la vita: stende Alì, lo manda al tappeto. La gloria lo sfiora, poi lo abbandona. Alì si rialza. È una furia. Non sbaglia un colpo. Al quindicesimo e ultimo round manda Wepner al tappeto. L’incontro finisce lì. Ed è già un film.
Ispirato dalle immagini, Sly in tre giorni scrive la sceneggiatura di Rocky, contatta l’entourage di Wepner per i diritti e propone: 70.000 dollari subito o l’1% sugli incassi del film. Wepner non ci pensa due volte e arraffa i 70.000 dollari. È reduce da un matrimonio andato a rotoli, ha un’amante da mantenere, una carriera da far finire in modo dignitoso e parecchi vizi a cui arrendersi. Il resto è storia, anzi leggenda. Carl ottiene la parte dello sfidante di Rocky, si chiama Apollo Creed e diventerà un’icona nelle puntate 1,2, 3 e 4 della saga. Stallone racconterà di averlo scelto perché gli ricordava l’atteggiamento spavaldo di Muhammad Alì. Personaggio amatissimo, Apollo Creed. Quasi amico con Rocky, nonostante i pugni dati e ricevuti sul ring. Per Carl è la consacrazione, coronata da una carriera di successo, spesso da comprimario ma non per questo meno prestigiosa. Tra i tanti ruoli interpretati, il poliziotto in “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Francois Truffaut e il sergente Jericho in “Action Jackson”, ma anche partecipazioni televisive in “Starsky and Hutch” e “Le strade di San Francisco”.
Un paio d’anni fa, il suo amico Sylvester Stallone con un post su Instagram si è detto pentito di aver fatto morire così presto Apollo Creed, «È il miglior boxer del cinema di tutti i tempi», ha scritto in un orgasmo di punti esclamativi – «Grazia, potenza e velocità incredibile!!! Non potrà mai essere replicato! Grazie amico mio, non avrei mai potuto farlo senza di te!!! Devo ammettere che mi sono pentito di aver ucciso Apollo così presto. Era insostituibile». Per gli amanti della saga: in Rocky IV Apollo viene fatto fuori da Ivan Drago, il cyber-pugile di «Ti spiezzo in due».
Di recente, Carl Weathers ha conosciuto una nuova notorietà come protagonista di “The Mandalorian”, serie tv live action ambientata nell’universo di “Guerre Stellari”. Si è sposato tre volte, non ha più giocato a football americano, ha la mania delle diete, è rimasto sempre affezionato ad Apollo Creed, che proprio in “Rocky IV” lascia ai posteri la sua celebre filosofia di vita: «Io ho combattuto con i migliori e li ho battuti tutti. Ho mandato più gente in pensione io della previdenza sociale». Ok, però dopo Ivan Drago lo stende forever. Ah, sappiatelo: la prima cosa che Stallone fece dopo aver incassato i primi soldi del film su ricomprarsi il cane, pagandolo 15.000 dollari e promettendo al proprietario una parte nel seguito di Rocky.
Foto copertina – headtopics.com