Ci entrereste in uno stadio per non assistere alla partita? Noi si, se fosse il viatico per muovere una riflessione sulla gestione e l’organizzazione calcistiche del Belpaese. E’ quel che devono aver pensato i tifosi della Reggiana nella serata del 23 agosto scorso in occasione del “trofeo Tim” di scena a Reggio nell’Emilia. Tre le squadre di serie A impegnate nel mini torneo: la Juventus, il Milan e i “padroni di casa” del Sassuolo. Quest’ultimo virgolettato si rende necessario per esplicare l’oggetto del dibattere di questo articolo. Nonché il motivo scatenante dell’incursione dei tifosi della “Regia”.
Diciamolo subito: un’incursione pacifica, preceduta da tanto di corteo organizzato per le vie della città, legittimata dal regolare pagamento del titolo di ingresso alla struttura. I tifosi granata di Reggio Emilia si sono presentati in circa 1500 unità per una quarantina di minuti scarsi, colorati coi vessilli della propria squadra del cuore. Peccato che la loro squadra del cuore non scendesse in campo quella sera. E allora? In cosa può essere tradotto questo gesto dei ragazzi reggiani, inspiegabile agli occhi di uno sportivo comune? Molto semplice: in senso di appartenenza. Quel legame imprescindibile tra territorio (inteso come tessuto sociale localizzato) e realtà sportiva (intesa come associazione finalizzata alla pratica sportiva non individuale), molto spesso interessato da venature romantiche, ma determinante nella concretizzazione di un’identità collettiva. Di squadra e comunitaria. Un fenomeno sociale che potrebbe apparire consunto agli occhi di un osservatore disattento delle nuove dinamiche gestionali sportive, ma assai prezioso anche in ottica di innovazione manageriale.
Nel 1995, il teatro dell’incursione reggiana non era denominato “Mapei Stadium – Città del Tricolore” come oggi, bensì stadio “Giglio”. Con esso, la Reggio Emilia calcistica dell’epoca era all’avanguardia in tema di strutture sportive italiane, essendosi dotata del primo stadio di proprietà dell’epoca moderna dopo il Campo Filadelfia di Torino. Con la capitolazione economica e sportiva della Reggiana, il Giglio, erede nei cuori granata dello storico Mirabello, cadde in disuso, per poi finire all’incanto. Tra l’indifferenza generale e dopo l’asta del 2010 andata deserta, la struttura finisce nelle mani del proprietario del Sassuolo, realtà calcistica rappresentante un sobborgo di Modena. La minuscola Società modenese, che può vantare la consistente conduzione di patron Squinzi già presidente di Confindustria, si è affacciata da qualche anno nel calcio italiano di primissimo livello; dallo scorso 2013 nel massimo campionato di serie A. La decisione di affrontare le gare interne dello stesso presso l’ex stadio Giglio ha sconcertato sia gli appassionati nero-verdi modenesi che i tifosi granata della Reggiana, strenui frequentatori dell’impianto seppure nelle competizioni minori. Da una parte, i sassolesi si ritrovano ad accedere ad un Mapei Stadium che non considerano affatto la loro “casa”, dall’altra gli emiliani che rivendicano, con fervore, l’appartenenza esclusiva della struttura alla città di Reggio Emilia.
La situazione venutasi a verificare determina un insuccesso su svariati fronti. A livello etico-sportivo, in quanto la condivisione dell’ottima struttura del neo Mapei Stadium sembra non incontrare il gradimento del pubblico attuale. Sia esso quello reggiano che quello sassolese. Ma, soprattutto, a livello gestionale. E, per di più, in maniera trasversale. Si parte dall’epoca reggiana, dato che il fallimento della proprietà e la tardiva realizzazione di esercizi commerciali adiacenti finalizzati all’autofinanziamento della Società ne hanno causato il non compimento del progetto nella sua interezza. Si persevera con l’era modenese, avendo ricavato un centro di aggregazione sportiva inadeguato al numero di “utenze” del Sassuolo Calcio, con un programma di sviluppo commerciale avviato da soggetti esterni (i precedenti attori del “progetto Giglio”), il cui target di riferimento è per forza di cose sganciato dal minuto contesto sportivo nero-verde situato, per altro, a circa trenta chilometri.
Posto che né Reggiana né Sassuolo hanno la forza necessaria per praticare la via del turismo sportivo, la mancanza (o lo zibaldone) del proprio radicamento sul territorio fa dell’attuale Mapei Stadium un semplice catino sportivo polivalente inserito in un’area commerciale. E’ questo il percorso che il calcio italiano intende percorrere in merito al rinnovamento delle proprie strutture e sedi sportive? La pianificazione improvvisata di breve periodo? Non ne abbiamo idea. L’atipico caso di Reggio Emilia non può essere esemplare; inoltre, non conosciamo le intenzioni future di Sassuolo e Comune (future collaborazioni tra tutte le parti in causa?), soggetti che in questo momento hanno maggiore potere decisionale nella vicenda. Staremo alla finestra, con uno sguardo interessato a ciò che succede anche per le altre strutture di proprietà, quelle già attive e quelle in via di definizione. Di sicuro, ci piacerebbe in futuro scrivere di ariosi e ambiziosi progetti di lungo periodo, modellati sull’identità territoriale delle nostre realtà sportive. E, soprattutto, ci piacerebbe non assistere mai più a tifoserie coinvolte economicamente nella realizzazione di progetti che le confinano, nel tempo, al ruolo di casuali comprimarie. Proprio come i sostenitori della Reggiana e i loro abbonamenti pluristagionali a sostegno della costruzione dello stadio Giglio.