Foto copertina: sportsgossip.com
Joe Burrow, prima scelta assoluta all’ultimo Draft NFL, torna in Ohio dov’è cresciuto e dove spera di togliere ai Cincinnati Bengals l’etichetta di perdenti. Tra sigari, giraffe e record frantumati, il profilo del nuovo talento del football americano.
Lo scorso 23 aprile si è tenuto il Draft NFL 2020, il primo in assoluto a svolgersi in videoconferenza anziché a Las Vegas come originariamente previsto. In assenza di tifosi ululanti, fischi al commissioner Roger Goodell e vestiti dai colori sgargianti confezionati ad hoc per i ragazzi selezionati al primo giro, a rubare la scena sono stati Nike, il cane di Bill Belichick seduto davanti al pc al posto del capo allenatore dei New England Patriots e, com’era prevedibile, la prima scelta assoluta: Joe Burrow.
Utilizzando uno di quei giochi di parole che tanto piacciono agli americani, richiamando l’assonanza fonetica tra Joe e Show, potremmo sostenere che i Cincinnati Bengals scegliendo Burrow si siano assicurati i servigi di una delle figure che potrebbero rappresentare il futuro della lega con il pallone ovale che ha appena superato il centesimo compleanno. Sarà dunque Joe Burrow da Athens, Ohio “the next show”, ossia la nuova figura per cui le televisioni affileranno le lame per avere una sua partita in prime time? Sarà Joe Burrow, fresco vincitore del titolo collegiale con LSU, a guidare verso un futuro più roseo una franchigia come i Cincinnati Bengals che da diversi anni rivaleggia con l’altra squadra statale, i Cleveland Browns, per il titolo di peggior squadra della NFL? Domande che troveranno risposta nel futuro, quando e se si potrà tornare a giocare (l’emergenza covid-19 potrebbe far slittare l’inizio della stagione 2020 previsto per il 10 settembre). Intanto però la curiosità intorno a Burrow cresce di giorno in giorno e non solo per le sue gesta tra una yard del campo e l’altra.
Prima del Draft, avevamo lasciato Joe Burrow a fumare un sigaro seduto su un divano di pelle nero. Non fosse stato vestito con maglia numero 9 di LSU e protezioni varie, saremmo stati indotti a credere che il giovane quarterback si trovasse sul set di un B-movie a sfondo erotico. Invece era solo il colorito festeggiamento per la vittoria del National Championship Game, il “titolo nazionale” del college football messo in palio tra i vincitori del Peach Bowl e del Fiesta Bowl, due dei tanti tornei di fine stagione. Burrow, con la sua Lousiana State University, aveva appena frantumato Clemson lanciando 463 yards per 6 touchdown e aveva concluso con il titolo una stagione memorabile che, per alcune testate piuttosto autorevoli (Usa Today, Bleacher Report e Fox Sports), è stata ritenuta la migliore in assoluto per un quarterback a livello collegiale con record di touchdown (60) e passing rating (202.0) battuti. Prima di entrare nello spogliatoio a festeggiare con il sigaro, ed essere bloccato da un agente di polizia che lo intimava di spegnerlo per non essere tratto in arresto, alla domanda di una giornalista di LSU che gli chiedeva se conoscesse il soggetto di una foto che lo raffigurava da bambino, Burrow, sfoggiando lo sguardo più sbruffone che potesse mostrare, aveva risposto “Assomiglia ad un campione nazionale”.
Boutade a parte, fino all’autunno 2019 la carriera collegiale di Burrow faceva presagire tutto tranne che una prima chiamata al Draft 2020. A 23 anni compiuti, il futuro del quarterback era da molti ritenuto non di primo livello. In NFL, certo, ma forse nei panni di un ottimo cambio del QB titolare. Mentre infatti Burrow vinceva l’Heisman Trophy, il riconoscimento con il quale viene insignito il miglior giocatore di football al college, e ancora non aveva ricevuto un singolo snap da professionista, altri due quarterback, Patrick Mahomes e Lamar Jackson, il primo di un anno più grande il secondo più piccolo di lui, vincevano rispettivamente Super Bowl e titolo di MVP in NFL. Che il treno giusto fosse passato? Tutt’altro. Quella di Joe Burrow è stata una carriera universitaria in continua rincorsa, iniziata vicino casa ad Ohio State come riserva del quarterback titolare e conclusa a Lousiana State, dove sono arrivati titolo e stagione dei record che hanno fatto schizzare alle stelle le quotazioni del ragazzo in ottica Draft. Ma se riavvolgiamo il nastro fino a settembre 2019, ci rendiamo conto che allora in pochissimi avrebbero scommesso il proverbiale verdone sulla certezza che il biondino venisse chiamato al primo giro, figuriamoci poi come prima scelta assoluta. “Burrow first pick? Are you kiddin’ me?!?” vi avrebbero risposto eppure succede anche questo, e in sede di Draft i Cincinnati Bengals non si sono lasciati sfuggire l’opportunità di riportare in Ohio il nuovo talento per provare, intanto, a tornare ad avere una stagione con più vittorie che sconfitte dopo 4 anni bui (bilancio: 21 vittorie, 42 sconfitte e 1 pareggio) e magari provare a giocarsi una partita playoff che manca dal 2015 (per rinvenire una vittoria in post season bisogna invece risalire fino al 1990, 6 anni prima che Burrow nascesse). La stagione a LSU è stata talmente fenomenale per l’Università che lo zoo di Baton Rouge ha voluto chiamare la giraffa appena nata proprio con il nome dell’idolo locale prima che questi facesse i bagagli e tornasse a casa in Ohio.
Già, l’Ohio. Per alcuni lo stato più noioso d’America (Cleveland è spesso appellata “The Mistake on the Lake”, l’errore sul lago; va meglio a Cincinnati, che per tutti è Cincy e per qualcuno “la Parigi d’America”) sicuramente uno di quelli dove la disparità tra centro e periferia, ceti abbienti e molto meno abbienti, istruiti e analfabeti è più tangibile. Mentre commentava in videoconferenza la sua chiamata al Draft, Burrow, oltre al cappellino d’ordinanza dei Bengals, indossava una t-shirt (la Nike, stavolta intesa come marca, aveva già messo le mani sul prospetto) con il profilo dello stato dell’Ohio e un il numero “740” che è il prefisso di Athens, città dove risiede la famiglia Burrow, ivi trasferitasi quando Joe aveva 9 anni per seguire il padre Jim, allenatore ad Ohio University il cui campus ha sede proprio ad Athens (per gli amanti della musica, occhio a non confonderla con l’Athens dei R.E.M, quella è in Georgia!). Un attaccamento alla propria terra che si evince non solo dalla t-shirt ma anche dalle parole che lo stesso Joe ebbe per la “sua gente” in occasione della consegna dell’Heisman Trophy, riconoscimento che volle dedicare a tutti quei ragazzi della zona di The Plains nella quale Athens è inclusa che, a differenza sua, faticano quotidianamente a trovare una collocazione nella vita districandosi tra un lavoro saltuario e Dio solo da cos’altro in un posto dove la povertà è due volte più alta rispetto alla media nazionale. Il cordone ombelicale con l’Ohio è stato così mantenuto dai Bengals che avranno un orgoglioso “figlio del Buckeye State” tra le proprie fila fidelizzando il pubblico che, in una lega dominata dagli interessi e le opportunità, vede con favore certe storie e la possibilità di riconoscersi territorialmente in un giocatore.
A Joe spetta dunque il complesso ruolo di assurgere profeta in patria e, soprattuto, di farlo nei Cincinnati Bengals con la doppia sfida di rendere la franchigia, a piccoli passi, vincente. Il DNA sembra quello giusto, visto che in famiglia Burrow il gene dello sport, come ha approfonditamente trattato Sports illustrated, è forte. Il padre Jim, ex defensive back in NFL e allenatore a livello di high school e college, era forse l’unico a credere nel roseo futuro del figlio visto che ha smesso di allenare proprio quando Joe è approdato ad LSU per avere la possibilità di seguire tutte le sue partite da vicino. Ma nell’albero genealogico dei Burrow si trovano fior fior di atleti nel football ma non solo, come ad esempio nonna Dot, giocatrice di basket femminile 6 vs 6 che si giocava un tempo, e che segnò 82 punti (sugli 89 totali di squadra) in una partita di high school in Mississipi. Tom Rinaldi di ESPN ha scherzato sul fatto che nonna Dot abbia fatto meglio anche di Kobe Bryant il quale, nella celeberrima sfida contro Toronto del gennaio 2006 si era fermano a “solo” 81 punti.
E se volessimo continuare a lambire l’ambito cestistico, sperimentando un’altra pratica che gusta non poco ai giornalisti e analisti sportivi a stelle e strisce, ossia quella degli accostamenti e dei richiami, a Cincinnati si aspettano che Burrow si comporti come un altro “figlio dell’Ohio”, Lebron James, che dopo aver vinto anelli NBA a Miami, è tornato a Cleveland e ha riportato un titolo in città dopo 52 anni. Oppure giocare sul nome e sul ruolo, richiamando un altro Joe che giocava quarterback, Montana, e che negli anni ’80 ha fatto piangere due volte i tifosi dei Bengals al Super Bowl (nel 1981 e 1988). Paragoni ingombranti per un ragazzo che ha la faccia e le caratteristiche giuste per giocare tra i professionisti ma che già oggi, a 5 mesi dall’inizio della stagione, ha su di se il peso di dover dimostrare ad una città, uno stato e forse anche ad una nazione, di aver meritato la prima chiamata assoluta al Draft. Ma Burrow è abituato alle sfide in salita e a guadagnarsi credito e rispetto sul campo. Ha dovuto spostarsi di 1000 miglia verso sud per emergere a livello collegiale e adesso che è tornato vicino casa ha voglia di dimostrare che è in grado si riscrivere la storia anche a sweet home Ohio.