Non appena visto in libreria “Indoor – La nostra storia” di Mike Agassi, ho pensato: “Ecco la pungente risposta del papà che vuol mettere le cose in ordine dopo la sfuriata del figlio”. Mi ricordavo infatti perfettamente delle stimolanti riflessioni partorite dal grande atleta della racchetta Andre Agassi in “Open, la mia storia“. Uno stupendo spaccato di vita sportiva vissuta ai massimi livelli, sospesa tra coercizione e talento cristallino. Ovviamente, non ho potuto far altro che acquistare anche il lavoro di papà Mike. Conoscete una più grande sfida, per dirla all’Overtime, di quella di un figlio che cerca di far valere le proprie ragioni su quelle del padre? E conoscete un padre che lasci passare queste esternazioni senza dire la sua? Io no. E’ con questo spirito che ho iniziato a leggere Indoor: “Dai, adesso leggiamo un po’ cosa ha da dire il papà despota in merito alle confidenze che Andre ci ha fatto”. Ancor prima di iniziarlo, però, ho dovuto rivedere la mia posizione. Già, poiché ho scoperto che la prima edizione statunitense di questo libro, dal titolo “The Agassi story” e a cura della ECW press, è del settembre del 2004. Ben cinque anni prima dell’autobiografia di Andre, che ad oggi considero uno dei libri più belli che abbia letto negli ultimi anni. Ho cambiato subito atteggiamento rispetto alla lettura, tornando immediatamente neutrale.
“Credetemi, io lo so come ci si sente a essere un outsider. Ho passato gran parte della mia vita ai margini. Sono nato in Persia – quella che adesso si chiama Iran – nel 1930, da genitori originari dell’Armenia: un cristiano in un paese popolato in gran parte da musulmani. Sono rimasto un outsider in America, dove sono emigrato a 21 anni praticamente senza un soldo, e senza sapere una parola d’inglese. Ho continuato a esserlo anche anni dopo, quando i miei figli iniziarono a giocare a tennis agonistico. Per i genitori degli altri ragazzi ero un orrido piccolo borghese armeno, uno venuto da Teheran per lavorare in un casinò di Las Vegas che aveva l’ardire di spingere i suoi figli ad affermarsi in uno sport riservato ai ceti sociali più alti. Comunque, ce l’ho fatta”.
Con un inizio così, l’unica cosa che mi potevo aspettare è che, anche questo libro, non sarebbe stato il racconto di una storia comune. Comunque, coerentemente, la mia iniziale simpatia per Andre era sempre viva. Ho letto “Indoor” attendendo qualcosa che potesse smentire i racconti che il gigante del tennis a stelle e strisce ha narrato in “Open”. Ma non è stato così.
Mike rivela fin da subito di essere stato un padre esigente. Molto esigente. D’altro canto, cosa ci si poteva mai aspettare da un ragazzo che, in visita a Wimbledon, sogna uno dei propri futuri figli trionfare su quel campo centrale come se fosse la cosa più naturale del mondo? E’ il suo sogno più intimo e non si darà mai per vinto prima di riuscire a realizzarlo. Comincia ad allenare la primogenita Rita, prosegue imperterrito con il secondogenito Phillip e finisce con avviare alla carriera tennistica persino la terza figlia Tami. Solo nel 1992, però, esaudirà il suo più grande desiderio, grazie al quarto figlio, l’autore di “Open”. Cercavo un padre padrone, ho trovato un uomo che si racconta in profondità tra pregi e difetti. Non risparmiandosi mai. Un uomo che ha saputo adattare la sua vita in diverse condizioni e che ha perseverato per realizzare i suoi sogni. Un uomo dal quale c’è comunque da imparare, anche se molti dei suoi metodi possono apparire non condivisibili. Un padre che ha educato i propri figli nel modo migliore che conosceva, per dar loro una vita più agiata della sua. Non è forse molto simile ad ogni padre che conosciamo?
di Antonino Di Gregorio, collaboratore di Overtime Festival