Buon lavoro vicepresidente Sara Gama

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Una scelta storica. Non soltanto simbolica e sicuramente non di facciata. Un decisivo passo in avanti per un intero movimento. Per tutto lo sport italiano. E anche per la cultura sportiva che tanto ci sta a cuore. Nello stesso giorno in cui la francese Stéphanie Frappart veniva designata arbitro principale della sfida tra Juventus e Dinamo Kiev – prima donna nella storia ad arbitrare una partita di Champions League – la calciatrice Sara Gama è stata eletta vicepresidente dell’AIC, l’Associazione Italiana Calciatori, diventando la prima donna a ricoprire la carica.

La capitana della Juventus Women e della Nazionale – nel Consiglio federale già dal 2017 – potrà avere da questo momento un ruolo ancora più attivo nella crescita del calcio femminile italiano di cui è una delle atlete più rappresentative e seguite. Campionessa dal grande carisma, per cui la Mattel ha creato una Barbie – la Barbie di Sara Gama appunto – in virtù della sua grinta «in grado di ispirare ogni bambina a perseguire sempre i propri sogni». Ammirata per le doti indiscusse sul campo, per l’eleganza innata con cui, con la maglia numero tre, interrompe le azioni avversarie facendo ripartire quelle della propria squadra. Apprezzata per le battaglie combattute nelle stanze dei palazzi per tutelare e difendere i diritti delle calciatrici, per chiedere e ottenere una parità di trattamento con i colleghi uomini troppe volte promessa ma mai realizzata per uno sconcertante disinteresse delle istituzioni.

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Sara Gama e la sua versione Barbie all’Allianz Stadium. (metropolitanmagazine.it)

Costantemente al lavoro per riuscire a far raggiungere a se stessa e alle proprie colleghe lo status di atleta professionista. Per portare finalmente a compimento il lento e tortuoso percorso che dovrebbe condurre le squadre di Serie A Femminile a diventare professioniste nell’arco di due stagioni, allineandosi ai più prestigiosi campionati del resto del mondo. Per eliminare una volta per tutte il pregiudizio concettuale per cui il calcio femminile è meno importante di quello maschile a prescindere, a partire dal suo status.

L’elezione di Sara è una grande vittoria per tutto il movimento del calcio femminile italiano. Che, fino a pochi anni fa, era considerato come qualcosa di folkloristico o poco più. Per capirlo basta ricordare le condizioni in cui si disputò la finale di Coppa Italia 2015 – cinque anni fa, non quaranta – tra Brescia e Tavagnacco ad Abano Terme: quando le squadre entrarono sul rettangolo di gioco trovarono un campo senza righe – vennero tracciate a sfida in corso – e con erba altissima su cui il pallone faceva fatica a rotolare. Per la premiazione poi, dulcis in fundo, fu allestito un tavolinetto bianco da giardino, per giunta sgangherato e traballante. Una mancanza totale di rispetto per le giocatrici che reagirono rifiutandosi di essere premiate dai rappresentanti della Lega Nazionale Dilettanti.

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ansa.it/EPA/Guillaume Horcajuelo

Mille difficoltà hanno incontrato tutte le ragazze praticanti questo sport, fin da bambine. Alcune – quelle fortunate – assecondate nel seguire la propria passione dai genitori. Altre – la maggior parte -spronate a dedicarsi ad altro con la classica frase “il calcio non è uno sport per signorine”. Prima della recente nascita di scuole calcio tutte al femminile, le ragazze giocavano fino a 14 anni in squadre maschili, uniche femmine in mezzo a tanti maschi. Costrette spesso a sopportare sorrisini di scherno, ad ingoiare mezze frasi maliziose. E, terminata la partita, non essendoci spogliatoi riservati a loro, tornavano a casa con la divisa piena di fango, o, nel migliore dei casi, si cambiavano negli sgabuzzini degli attrezzi o, infreddolite, attendevano all’aperto che l’arbitro si facesse la doccia e “liberasse” lo spogliatoio per poterci finalmente entrare loro. Per le giocatrici che, fortificate, superavano tutto questo, a 15 anni si presentava un altro passaggio traumatico: essendo vietato continuare da quell’età a giocare in squadre maschili, dovevano trovarne una femminile. Impresa non facile. Perché le squadre erano poche, presenti per lo più nei grandi centri. E per raggiungere i loro campi di allenamento le ragazze provenienti dalla provincia erano costrette a sobbarcarsi estenuanti e costose trasferte in macchina, più volte alla settimana.

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Sara Gama in tutta la sua eleganza con la maglia della Nazionale, di cui è colonna portante e capitano. (calcioefinanza.it/Daniele Buffa/Image Sport/Insidefoto)

Per quelle che “ce la facevano”, che arrivavano in serie A, la salita non era certo finita. Le società, anche quelle vincenti e di più alto livello, garantivano solo rimborsi spese o miseri stipendi. E per sbarcare il lunario, le ragazze giocavano, studiavano e lavoravano contemporaneamente. Oppure tentavano la strada dell’estero, andando in società molto più organizzate delle nostre. Ma allo stesso tempo separandosi dagli affetti, affrontando difficoltà di ambientamento. Sono storie comuni anche a tante ragazze della Nazionale italiana, raccontate nel libro di Alessandro Alciato “Non pettinavamo mica le bambole” (Baldini+Castoldi) che, attraverso le storie delle sue protagoniste, descrive magistralmente la situazione in cui versava il calcio femminile italiano prima dei Mondiali di Francia 2019. La competizione che, insieme alla nascita dei team femminili delle grandi società, ha segnato uno spartiacque, un prima e un dopo, che ha acceso i riflettori su queste ragazze, di cui l’Italia si è accorta e innamorata. Per la loro genuinità, per la passione che traspirava da ogni gesto. Per le vittorie. Per essere arrivate, contro e al di là di ogni previsione, fra le prime otto squadre al mondo. Per aver battuto formazioni sulla carta più attrezzate come Australia e Cina. Approfittando, per una volta nella loro vita, del confronto con il calcio maschile: loro protagoniste in Francia, la Nazionale dei maschi neppure qualificata per i Mondiali di Russia.

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L’Italdonne ai Mondiali di Francia 2019. (lagoleada.it/Melanie Laurent/A2M Sport Consulting/DPPI)

Siamo sicuri che Sara Gama, papà congolese e mamma triestina, una laurea in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Udine, un passato anche al Paris Saint-Germain, rappresenterà al meglio e con la consueta determinazione le istanze delle sue colleghe. Perché ha vissuto le loro stesse difficoltà. Per giocare si è dovuta sorbire ore di treno per raggiungere Udine, mentre i suoi amici potevano scegliere tra decine di squadre vicino casa. Ha patito gli stessi pregiudizi. E nonostante, in generale, sia sempre stata accolta bene in campo e fuori, qualche leone da tastiera, sui social, ha scritto che non dovesse essere il capitano della Nazionale italiana per il colore della sua pelle. Amarezze e ostacoli che non l’hanno abbattuta ma che non ha voluto tacere durante il discorso tenuto di fronte al presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dei festeggiamenti per i 120 anni della Federazione Italiana Giuoco Calcio.

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Sara Gama al Quirinale. (torinomagazine.it)

«Credo che per noi donne questi 120 anni di calcio siano stati vissuti in maniera diversa. Il calcio è nato molto tempo fa e anche quello praticato dalle donne ha mosso i suoi primi passi non molto tempo dopo quello degli uomini, ma il percorso delle due realtà di questo sport è stato molto diverso, e la nostra disciplina ha faticato a decollare e a vedersi riconosciuta una sua dignità. Per questo ci piace pensare anche che il nostro calcio sia piuttosto giovane e tutto sommato dare 120 anni a delle donne penso non sia proprio il massimo».

 

Foto copertina – ilpiccolo.gelocal.it

 

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Un commento

  1. […] calcio la squadra che la fa da padrona è Juventus Woman, con le sue Sara Gama e Barbara Bonansea. Nata soltanto tre anni fa, oggi conta oltre 150mila seguaci e 312mila […]

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