Cosa sei stato, Pablito Rossi

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paolo rossi

Quando il calcio ci faceva piangere prima che ora ci facesse piangere di nuovo, capitava di partire da un oratorio di Prato e di finire mescolato alle leggende. Ti chiami Rossi come in migliaia di famiglie d’Italia e diventi Pablito. Tre gol nel ’78, l’Italia che arriva quarta ai Mondiali e tu ti trasformi in una star. I gol sono sei nel 1982, l’Italia è campione e tu diventi carne di una nazione.

Paolo Rossi, Italia: così dicevano perfino in quei posti del mondo che stavano schiacciati dentro le pagine dell’atlante geografico che la maestra teneva dentro l’armadietto a scuola. Noi non conoscevamo loro, loro non conoscevano noi. Ma tutti conoscevamo lui. Che cosa sono i Mondiali di calcio. Che cosa sei stato, Pablito.

La migliore descrizione tecnica, per chi avesse avuto la sventura di nascere senza averlo potuto vedere in campo, sta in 22 parole messe in fila da Mario Sconcerti nel suo prezioso “Storia delle idee del calcio”: «In area si alzava della polvere, intuivi un gruppo di corpi, e se la palla andava in porta era stato Paolo Rossi».

È la fotografia del primo gol alla Germania. La finale del Mundial. Il Mundial nel quale è passato nel giro di un mese da uno che non sta in piedi a uno che risorge e che fa risorgere pure te.

Guardavo la folla, i compagni e dentro sentivo un fondo di amarezza – scriverà anni dopo -. Adesso dovete fermare il tempo, adesso. Non avrei più vissuto un momento del genere. Mai più per tutta la mia vita.

Paolo RossiHo fatto piangere il Brasile (Limina)

 

Alla vigilia dei Mondiali del 2014 in Brasile, Lula diede un’intervista nella quale scherzando implorò: per favore, non portate Paolo Rossi. Solo la parola Maracanazo è stata un incubo maggiore per un brasiliano.

A Tommaso Pellizzari, in una intervista per il Corriere della sera, a distanza ormai di oltre trent’anni da quella tripletta, nel promuovere la sua biografia, raccontò che Bearzot non gli disse una parola. «Quando arrivai in Nazionale vedevo Bearzot come una persona di un certo tipo, con una certa esperienza. Oggi se penso a Mancini mi sembra uno giovane. Ma quelli di Bearzot erano 54 anni di un altro vissuto».

Piero Trellini, nel suo libro “La partita”, ha raccontato che il CT una volta andò a trovarlo durante il periodo di squalifica per il calcioscommesse e dinanzi a qualche chilo di troppo che gli trovò, disse che aveva fatto dei «fianchi da fattrice normanna».

Senza Bearzot non sarebbe esistito Pablito. Né nel 1978 né soprattutto nel 1982. Nei prossimi giorni saranno 10 anni dalla sua morte.

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Enzo Bearzot e Paolo Rossi a colloquio durante una partita del Mundial di Spagna. (sport.virgilio.it/Werek/Imago/IPA)

Rossi disse al Corriere della sera: «Un uomo non facile. Quando ti parlava non aveva l’aria paterna. Era un po’ rigido. Buono, ma rigido. A volte, poche, ti dava una carezza. Ma più spesso usava il bastone. Però era forte e gagliardo se c’era da difenderci all’esterno: noi gli abbiamo voluto bene anche per questo».

Per lo stress Pablito aveva perso cinque chili in ritiro. La sera prendeva un extra di latte e biscotti. «La mia non è stata una storia normale e serena. Ho toccato picchi vertiginosi, sono salito in cielo e sono sprofondato nel buio. I Mondiali mi hanno dato cose incredibili e poi sono ricaduto».

C’è stato un periodo, prima che tornasse in televisione con quegli occhietti un po’ socchiusi a cercare le parole in mente sua, a sforzarsi di raccogliere un pensiero – c’è stato un periodo nel quale a Paolo Rossi piaceva sentirsi una specie di Salinger del pallone. Un’altra Mina.

Si era ritirato in un lembo di terra della campagna aretina, a Bucine, provincia di Arezzo, in un agriturismo che si riempiva di turisti tedeschi e finlandesi. Roba di una dozzina di anni fa. Non per fare lo snob, né per nascondersi. Se uno lo chiamava, lui rispondeva. Se uno diceva: io verrei, lui rispondeva: vengo alla stazione.

Raccontava di aver regalato tutte le maglie che una volta gli riempivano la casa e che le ultime erano andate perse nell’alluvione di Vicenza. Il Pallone d’oro in casa era un’assenza. C’erano un paio di foto di lui vestito da calciatore dentro lo studio, di fianco al computer. Deve essere ancora così.

«Vinco il Mondiale nel 1982 e un giorno mi scopro a pensare: e ora? Non mi restava più niente da inseguire. Ho vissuto gli ultimi anni della mia carriera con la difficoltà nel trovare motivazioni. Problemi fisici. Ero pieno di dolori, non mi divertivo più. Bearzot mi volle ancora al Mondiale ’86 perché rappresentavo qualcosa. Cercava un mio clone in Galderisi, io non ero più io. Ho trascorso gli ultimi anni da calciatore pensando a cosa avrei fatto dopo».

Aveva raccontato questo sentimento in una intervista con il Venerdì del 23 maggio 2014.

«Sapevo che dal calcio sarei scappato. Avevo voglia di conoscere cosa fosse la vita, la vita vera, dico. Chi fa il calciatore non lo immagina. C’è un mucchio di gente intorno a te che ti organizza le giornate. Vivi dentro una bolla, è un altro mondo. Io sapevo solo che dovevo fuggire da lì. Volevo sapere cosa fosse il tempo. Il mio era sempre stato scandito dalle partite. Il campionato, le Coppe, la domenica, il mercoledì. Ecco, io volevo riprendermi il tempo. La libertà. Volevo sapere cosa significa entrare alla posta a pagare una bolletta, cose piccole, cose così».

Era la fase nella quale Paolo voleva fare quel che era stato impossibile a Pablito. Perfino quando la tv decise di riportare il suo mito nelle nostre case, durante le notti di Champions, con quel suo mezzo sorriso da pirata, consapevole che la stava dicendo grossa e nel dirla – ma sì la dico – si divertiva, raccontava di aver smesso di guardare le partite. Di guardarle tutte, ecco. «Dopo 10 minuti finisce che cambio canale».

Faceva l’esperto. Nel senso che lo faceva. Non voleva passare per uno che lo fosse davvero. I braccetti, lui non lo diceva. Ci voleva poco a leggergli dentro il disincanto mentre parlava, quando chiamava il calcio il suo tormento.

«In tv sdrammatizzo, cerco l’aspetto umano. Quando ho smesso, all’inizio l’effetto era stranissimo. Mi sentivo come fuori da un recinto, ma non sembrava la mia vita, mi sembrava di vedere un film in cui qualcuno viveva al posto mio. Ho cominciato a fare il libertino. Sentivo di non avere più tutti gli obblighi di prima. I miei amici più veri sono un macellaio, un ragazzo che ha un banco al mercato, un imbianchino e uno che vende oro. Organizzavo viaggi, per me e per loro. Siamo stati in Belize, nel Borneo, in Giamaica. Mi riprendevo la vita normale che i Mondiali mi avevano stravolto. Ero un calciatore di fama planetaria: un certo effetto lo può fare».

Quando essere Paolo Rossi significava avere l’Italia ai piedi. «C’è stata una cosa sola che mi ha spinto a sfruttare il mio nome e la mia popolarità. La pittura. Una passione condivisa con Bearzot, che era amico di Aligi Sassu: ce l’aveva trasmessa il massaggiatore della nazionale, De Maria. Telefonavo ai pittori, mi presentavo, sono Rossi, il centravanti, chiedevo di poter stare mezza giornata con loro, a guardare il lavoro. E così sono andato sei o sette volte da Guttuso, mi hanno ospitato Treccani, Migneco, Arrigoni. Quando eravamo all’estero, ne approfittavo per andare in giro per musei. È successo che ne abbiano aperti di notte, solo per me. I quadri sono stati per anni la mia droga. Più ne compravo, più ne volevo di una fascia superiore. Finché mi sono accorto di essere arrivato a un livello oltre il quale non potevo salire, lì ho capito che dovevo frenare e staccarmi un po’».

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Tra le tante mostre frequentate, ce n’è anche qualcuna in suo onore. (tuttoc.com)

Da ragazzino Paolo d’estate lavorava come barista al circolo di fronte casa dei suoi. Era così che si diventava calciatore negli anni ‘70. Succedeva. Qualcuno al paese ti aveva visto tirare i calci al pallone, spesso il prete, e ti segnalava a una squadra. «Guadagnavo i primi soldini preparando i caffè e i gelati. A 13 anni volevo fare l’astronauta, avevo visto Armstrong in tv. Chiesi a mio nonno: ma come si fa ad andare sulla Luna? E lui rispose: eh, andare sulla Luna, si deve prima asfaltare tutta la strada». È stato questo mondo genuino a tenerlo a galla, quando il calcio gli ha dato e anche quando il calcio dopo gli ha tolto. «Mi hanno aiutato le mie radici, la semplicità della mia famiglia. Mio padre lavorava in amministrazione in un’azienda di tessuti, mia madre faceva la sarta. Lo stipendio era quello che era, ma sono cresciuto felice. Se vieni da due persone così, non è che da un giorno all’altro pensi di andare a comprarti uno yacht da cinquanta metri. Così come mio fratello, si chiama Rossano, anche lui ha provato a giocare a calcio. Era nei ragazzi della Juve, poi al Prato, all’Empoli. Centrocampista. Non credo sia stato geloso di me, non gliel’ho mai chiesto, era a Madrid la notte della finale con la Germania. I miei la domenica venivano a guardarmi, ma non gliene importava niente della squadra per cui giocavo: venivano a vedere il figlio. Guadagnavo bene, si poteva pensare al futuro, ma non eravamo ricchi come i ragazzi di oggi, che sono tutti uguali, gli stessi tatuaggi, lo stesso taglio di capelli. Li sfido a essere ancora amici fra 30 anni, come io con Cabrini e Tardelli. Quando entravamo nell’ufficio di Boniperti per firmare il rinnovo, la cifra era già stata scritta da lui sul contratto, ed era quella. Al calcio ho lasciato tutto, dal punto di vista fisico e dal punto di vista morale».

Gli tolsero tre menischi quando toglierne anche solo uno metteva paura a chi si operava. Gli tolsero due di carriera per il primo scandalo delle scommesse. Lui lo raccontava a questa maniera qua: «Ho perso due anni della mia vita senza aver fatto niente, per essere stato seduto una sera a un tavolo con delle persone sbagliate, per un episodio di due minuti. Non credevo che mi avrebbero condannato, fu una pugnalata alle spalle. Mi tolsero il mio mondo, fu la prima crisi di rigetto. Perché poi la gente pensa: se lo hanno condannato, qualcosa avrà fatto. Trovavo sollievo dentro di me, nella mia coscienza. Ma nella coscienza potevo guardare solo io».

Ricordava di aver visto i Mondiali di Messico 70 insieme al nonno. Ricordava come uno dei giorni più belli della sua carriera quello in cui Bearzot gli disse che lo avrebbe fatto giocare contro la Francia, esordio al Mundial argentino del 78. Mar del Plata. Quando stava iniziando a diventare Pablito.

«È il momento della mia carriera che mi capita di ricordare più spesso».

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Rossi in azione contro i padroni di casa dell’Argentina nei Mondiali del 1978. (sport.sky.it)

Daniele Dallera sul Corriere della sera stamattina ne ricorda il suo sorriso che ci ha fatto compagnia, ad ogni suo gol braccia al cielo si festeggiava. Ben voluto e rispettato in tv come commentatore, a Mediaset e in Rai, perché anche nei giudizi usava una dote non comune: il garbo. Ci lascia un grande campione, ma non solo del calcio.

Hanno appena iniziato a girare un film nel quale – di nuovo – la sua presenza è nell’assenza. Come quando in area di rigore non c’era e invece c’era, tu difensore ti giravi e lui zac. “Mancino naturale è il titolo, la storia di un ragazzino che si chiama Paolo perché Paolo è Rossi. Con Claudia Gerini Katia Ricciarelli e Massimo Ranieri. Pablito invece parlava spesso di un film che avrebbe voluto vedere tratto dalle sue memorie, dalla sua biografia.

A Giacomo Puglisi, del Giornale, quando uscì “Quanto dura un attimo” (Mondadori), disse «Gli altri in me vedranno sempre il Paolo Rossi calciatore, campione del mondo, quello che esulta ai gol segnati contro il Brasile nei mondiali del 1982. Io però mi reputo una persona normale: mi piace stare insieme ai miei figli, cercare di trasmetter loro i miei valori. Ho uno standard di vita piuttosto semplice, anche se ho diverse attività che mi riempiono l’esistenza. Ma la cosa che apprezzo di più è il tempo trascorso con i miei cari. Questo sono io».

Volle restare normale anche quando era diventato già Pablito. L’anno dopo il mondiale argentino, era il 1979, Rossi diventò il centravanti del Napoli. Per poche ore. Lo dissero alla radio una mattina. Si è risolta la grana Rossi, dissero così, il centravanti della nazionale adesso è del Napoli. Facevamo colazione, che voce che aveva Alberto Bicchielli. La grana era questa: il Vicenza di Paolo Rossi era retrocesso in serie B, e il numero 9 dell’Italia in B non ci poteva andare. Il suo presidente, che si chiamava Farina, cercava una squadra a cui darlo almeno in prestito. E c’era il Napoli.

Il Napoli che si era fatto avanti, era una squadra che veniva da un settimo posto, due sesti posti, una finale di Coppa Italia e una semifinale di Coppa delle Coppe. Rossi fu del Napoli per il tempo di esserne informato e rifiutare. Altro che grana risolta, il caso restò per giorni e giorni sulle prime pagine. Il papà di un mio amico riferiva con certezza la frase pronunciata da Rossi nel momento del rifiuto. «Non vado a fare il lampadario di cristallo in una stalla».

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Paolo Rossi con la maglia dell’amato Lanerossi Vicenza. (it.wikipedia.org)

Ooooh. Chissà come l’aveva saputa. Lui mormorò: «L’ho letto sul giornale».

Ci fu chi la giudicò tra noi una frase offensiva per la città, chi un giudizio negativo su una squadra di mezza classifica. Per anni ho girato fra gli archivi alla ricerca di una traccia di quelle parole. Niente da fare. Di Rossi si trovano casomai altre frasi. In quei giorni dice: «Io al Napoli? Mai. Del resto Farina lo sapeva già da due mesi. Bene il Milan, meglio la Juventus. Al di fuori di queste ipotesi non avrei accettato alcuna soluzione. Piuttosto del Napoli preferisco rimanere in serie B al Vicenza. Non ho niente contro il Napoli anzi auguro alla squadra di Vinicio e ai tifosi ogni soddisfazione compreso lo scudetto. Per quanto mi riguarda però è un discorso inaccettabile».

E poi altre frasi-chiave. Rivelatrici di sé, se non del lampadario.

Disse: «Sono stanco di fare l’uomo spettacolo». Poi: «Non mi va di essere protagonista a vita. Voglio ritrovare un ambiente in cui Paolo Rossi sia soltanto uno degli undici giocatori. Invidio i miei coetanei che vivono spensierati la loro gioventù. Penso con preoccupazione alla mia esistenza».

Ancora: «Altri a Napoli si sono trovati a meraviglia, ma io non cambio idea. E’ un problema di mentalità. I napoletani sono passionali e sotto un certo aspetto li ammiro, però mi renderebbero la vita difficile. Prima dei soldi metto la mia privacy».

Siamo nel 1979, stiamo parlando di un ragazzo di 23 anni.

Il 9 luglio del 1979 racconta a La Stampa un episodio: «Cosa penso del Napoli è noto. Chi sostiene che mi sono montato la testa e che non posso concedermi il lusso di rifiutare Napoli doveva essere con me, l’altro giorno sull’autostrada del sole. A una stazione di rifornimento nei pressi di Piacenza mi sono imbattuto in cinque napoletani. Sulle prime mi hanno invitato al gioco delle tre campanelle, poi mi hanno riconosciuto e naturalmente hanno chiesto spiegazioni al mio no. Poi per dimostrare la loro simpatia, m’hanno offerto da bere senza abbandonarmi un istante sino al momento della partenza. Sotto un certo aspetto sono meravigliosi ma a Napoli non avrei più pace».

Questa storia dice molto di come Rossi visse la sua popolarità.

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Paolo Rossi, in borghese, in compagnia di alcuni giovani aspiranti calciatori. (lanazione.it)

Finì come finì. Rossi non venne a Napoli, andò a Perugia. Finì dentro quella storiaccia. Per poi tornare eroe. Che giocatore che era Pablito. Quando venne per la prima volta col Perugia da avversario a Napoli, il San Paolo batté il record di spettatori paganti, 89.992. Record che resiste ancora. Tutti allo stadio per lui. Paolo Rossi. Per dirgli che non si fa quel che fece, e non si dice quel che disse. Il lampadario. La stalla. Se davvero lo disse. Chi lo sa. Era pieno di bancarelle, tutt’intorno al San Paolo. Accattàteve ‘o fischietto pe’ fischià a Paolo Rossi, ‘o fischietto, ‘o fischietto.

Poi con l’arrivo di Krol prima e di Maradona poi, di quel rifiuto Napoli se ne fece una ragione. Forse lo scudetto sarebbe potuto arrivare prima, chi lo sa, ma la gente ci mise una pietra sopra. Ma sì, dai, voleva la privacy.

Un giorno si trovò a doverne riparlare nel salotto di casa sua. Si divertì molto all’idea di un what if, cosa sarebbe successo se. Aveva perso l’occasione di diventare una statuina su un presepe di San Gregorio Armeno, il nome della pizza in un menu, aveva perso l’occasione di far chiamare Paolo un mezzo migliaio di bambini napoletani. Soprattutto, e faceva sì con la testa e gli occhietti mezzi chiusi, aveva forse perso l’occasione di giocare insieme a Maradona. E qui c’è la massima libertà di immaginarsi quello che si crede e che si vuole, due settimane dopo la morte di Diego. Seduto sul divano, si aprì e disse: «Io quella frase del lampadario non l’ho detta mai. Lo giuro. Decisi dopo aver telefonato a Ferlaino. Gli dissi: io vengo, ma lei fa una squadra per vincere il campionato? Mi rispose: lei cominci a venire poi vediamo».

Il Mundial è stato il Mundial perché c’era Pablito. Rossi, finalmente Rossi titola Repubblica dopo i tre gol al Brasile. Rossi dieci e lode per TuttosportUn Rossi da fantascienza per il Corriere dello sportPablito come ai tempi dell’Argentina per Paese Sera.

Alla vigilia della finale contro la Germania, Gianni Mura ebbe una paginata intera su Repubblica per divertirsi con una parodia di ciò che scrivevano i giornali di Paolo Rossi prima, e di cosa scrivevano adesso. È un pezzo-manifesto del libro “Dov’è la vittoria” di Vittorio Sermonti, il dantista che ricostruì i giorni di Spagna in archivio, una cronaca delle cronache ma anche un saggio sulla volubilità dei giudizi nel giornalismo sportivo e sulla figura antropologica del voltagabbana.

Mura scrisse che prima dei tre gol al Brasile, Rossi per la stampa era questo: Intanto è uno scandalo che gli diano la maglia azzurra a questo ladro, a quest’infamone. Come ci si può fidare di uno che ha fatto quello che ha fatto lui, che per due lire venderebbe la madre? E almeno giocasse bene, si capirebbe perché quel testone di Bearzot insiste. Invece no, Rossi fa piangere, tanto è vero che l’hanno sostituito, e d’altra parte basta sapere appena un pochino di calcio per capire che dopo tutti quegli anni fermo Rossi non poteva più essere il Rossi argentino. Là arrivava sul pallone con un secondo d’anticipo su tutti, qui con due secondi di ritardo. E poi è sempre per terra a lamentarsi. Almeno tre centravanti meritavano quella maglia più di lui, a prescindere dalle scommesse. Con Rossi facciamo ridere il mondo, te lo dico io.

E di fianco, oltre una riga verticale, c’era la parodia che Mura faceva dei giudizi all’improvviso mutati. Scriveva: Angelo vendicatore, angelo sterminatore, bel morettino mio, ianua coeli, nino de oro. Rossignol, aiutaci a sognare, aiutaci a segnare, mettila dentro, con Rossi facciamo tremare il mondo, te lo dico io, non solo i crucchi. Pensa a quante me ha passate ‘sto ragazzo, l’hanno sporcato che era pulito come un giglio, ha perso più di due anni della sua vita, ha perso quattrini, ha perso quotazione, ha perso fiducia, ed eccolo qui come se niente fosse capitato, bello e sicuro, rapido e invisibile, mordi e fuggi, sei tutti noi, siamo tutti con te. Ti picchiano ma ogni volta ti rialzi più forte di prima, come te non c’è nessuno, sfonda la porta dei tedeschi, apri la porta del paradiso.

Domani ci torniamo. E dopodomani, e poi ancora, magnifico Pablito che sei stato. Un altro pezzo di adolescenza.

Per anni al centravanti Mundial è parso che suo figlio, oggi prossimo ai 40 anni, fosse disinteressato al fatto di avere per padre Paolo Rossi. Poi un giorno Alessandro gli scrisse una lettera: spiegami perché sei il mito dei miei compagni di scuola, tu che sei così semplice a casa. Maria Vittoria, la bimba avuta dieci anni fa, a mamma Federica un giorno ha domandato: «Ma io sono famosa? E vero che papà è un campione del mondo? Ieri ha fatto gol?».

A Maria Vittoria l’avevano detto a scuola. E allora Paolo, non più Pablito, l’ha presa in braccio, le ha dato un bacino e le ha raccontato che sì, era vero, quello era stato il suo lavoro.

«Le ho detto che non c’era niente di speciale e che davvero sono diventato campione del mondo. Tutto qui. È capitato».

 

Questo articolo è stato rielaborato per Overtime ed è tratto da “lo Slalom”, una newsletter mattutina per abbonati: una selezione ragionata dei temi e dei protagonisti del giorno, con contenuti originali o rielaborati, brevi estratti degli articoli più interessanti usciti sui quotidiani italiani e stranieri, sii siti, i blog, le newsletter e le riviste specializzate, con materiale d’archivio, brani di libri e biografie. Una guida e un invito alla lettura e all’approfondimento, con montaggio a cura di Angelo Carotenuto.

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Foto copertina – eurosport.it

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2 Commenti

  1. […] durante un Genoa-Vicenza del 1977 abbraccia un altro indimenticabile bomber del nostro campionato, Paolo Rossi. (olympia_vintage on […]

  2. […] alle prese con Paolo Rossi in un Napoli-Verona del 1986/1987. (@facciacalcio on […]

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