Nicola Pietrangeli, la racchetta che faceva impazzire il mondo

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Foto copertina – amillionsteps.velasca.com

«Ai miei tempi» dice ogni tanto Nicola Pietrangeli. Ai suoi tempi.

Forse non esiste un altro come lui. Non esiste cioè nello sport italiano un altro veterano così consapevole che serve un atteggiamento di disincanto pure verso i ricordi.

«Ai miei tempi» dice, sì. Ma sussurra, non brontola. Pietrangeli non dice «ai miei tempi» perché era tutto migliore, era tutto più bello, era tutto più lui. Ce ne sono tanti di monumenti che stanno al mondo così. La sua non sembra mai banale nostalgia. È qualcosa di diverso. Forse perfino di più amaro.

Pietrangeli non ripete che Laver, che Rosewall, che Newcombe. Anzi. Si dichiara federeriano ogni volta che può, ammira Djokovic, esalta Nadal. Quando ha visto giocare Jannik Sinner, ha detto che nessun italiano è stato così forte a 18 anni. «Nemmeno io».

Lo incontri a Roma, a Montecarlo, a Parigi. Sono i suoi posti. Non ci sono giocatori emergenti che non conosca o che snobbi. Non è un eremita, non disdegna il presente. Recita semmai da padre nobile, tanto discreto è oggi quanto è stato ingombrante ieri.

Quando qualcuno ancora gli chiede del ruolo avuto nella Coppa Davis vinta dall’Italia nel 1976 in Cile, adesso risponde che passava gli asciugamani ai giocatori. Eppure all’epoca intorno alla sua figura si sollevò la ribellione della squadra, che alla fine ne pretese l’allontanamento.

Paolo Bertolucci su La Gazzetta dello Sport sette anni fa scrisse: “Sulla sedia la sua era una presenza forte, ricca di personalità, un tantino ingombrante, ma sicuramente passionale. In quella occasione e nella finale dell’anno seguente nacquero delle incomprensioni e le nostre strade si divisero. Ci siamo rivisti tante volte senza mai tornare sull’argomento, il tempo attenua senza però cancellare del tutto le distanze”.

Nella vittoria del 1976 Pietrangeli rivendica per sé un ruolo politico, il merito cioè di avercela portata, la Nazionale, nel paese di Pinochet. Nel libro Sei chiodi storti. Santiago, 1976, la Davis italiana (66thand2nd, 2016), Dario Cresto-Dina ha scritto: “Nessuno voleva imputarsi la vergogna di quella coppa. Mancavano pochi giorni a Natale. A Roma Nicola Pietrangeli l’accolse per una notte nel suo letto, abituato a ben altre compagnie, e ci dormì sopra”.

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Corrado Barazzutti, il capitano non giocatore Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta sollevano la Coppa Davis appena conquistata all’Estadio Nacional di Santiago del Cile, uno dei simboli del regime di Pinochet (atuttapagina.it)

I suoi tempi

I suoi tempi erano i suoi tempi, e basta. Il 28 maggio del 1960 Pietrangeli vinceva il suo secondo Roland Garros consecutivo, ma rispetto alle stelle dello sport italiano dell’epoca non rivendica nessuna supremazia e nessuna attualità. Gianni Rivera ha preso il patentino da allenatore a Coverciano a 76 anni, confessando che Tavecchio lo voleva CT. Livio Berruti, oro olimpico nei 200 metri qualche mese dopo il trionfo parigino di Nicola, con il suo 20”5 avrebbe corso le semifinali agli ultimi Mondiali.

Nicola in finale batté il cileno Ayala con le vesciche ai piedi e quello che lo faceva correre con smorzate e pallonetti.

Quando Pietrangeli ripensa a quei giorni e li confronta con questi, specialmente quando si fa due conti, sa benissimo da quale parte stare. Nei giorni scorsi ha detto a Riccardo Crivelli su La Gazzetta dello Sport: «Il premio era di 150 dollari. Nel 1960 un dollaro valeva 620 lire, quindi guadagnai 93.000 lire. A Roma vivevo in una casa nemmeno troppo grande in affitto a 55.000 lire al mese. In pratica, con il successo a Parigi ci pagai a fatica due mensilità…».

La questione era già stata affrontata con Walter Veltroni in un’intervista per il Corriere dello Sport-Stadio tre anni fa. «A Parigi quest’anno il primo premio era due milioni e duecentomila euro, avendolo vinto io due volte fa quattro e quattro. E avendo perso in finale due volte, arriviamo oltre i sei. Ma ho vinto anche un doppio e un misto. Quindi saliamo a sette milioni. Poi mi sono aggiudicato due volte Roma e una volta sono arrivato in semifinale a Wimbledon. Più le altre decine di tornei vinti. Faccia lei. Avrei messo a posto alcune generazioni di Pietrangeli. Qualche mese fa ho ritrovato una medaglia che ho vinto, la guardo e c’è scritto Nicola Pietrangeli, semifinale di Wimbledon, medaglia di bronzo e venticinque pound. Quest’anno medaglia niente, però settecentocinquantamila sterline».

Non è solo una questione di soldi.

Nicola Pietrangeli vinse Parigi da campione uscente. “Il sommo Nic” lo chiama Gianni Clerici, l’altro italiano con lui ammesso nella Hall of Fame del tennis. Eppure. «Pressione zero. L’atmosfera – sempre giorni fa alla Gazzetta – era diversa, nel circuito eravamo quasi tutti amici e non c’era l’ossessione del risultato da parte dei tifosi e dei media».

La notizia sul Corriere della Sera ebbe un risalto relativo. Due colonne a pagina 13, di spalla alla vittoria di Nencini nella tappa di Sestri Levante al Giro. Si legge: “Pietrangeli, durante l’incontro, è stato più volte applaudito a scena aperta dal pubblico francese, che gli ha tributato alla fine un’entusiastica ovazione”. La Stampa diede la notizia in una breve di quindici righe e l’Unità in tredici, scrivendo che così aveva riscattato la deludente prestazione fornita agli Internazionali di Roma.

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Nicola Pietrangeli festeggia la vittoria nel Roland Garros 1959 (tenniscircus.com)

Che giocatore era Pietrangeli?

Come possiamo raccontarlo a chi non lo ha visto? “Si può dire che Pietrangeli apparteneva alla categoria degli incontristi – ha scritto Pietro Farro nel libro Il tennis è un grattacielo – particolarmente adatto alla terra battuta, senza dubbio la sua superficie preferita. Aveva un eccellente rovescio, un ottimo tocco di palla e una straordinaria tenuta atletica. Ma anche un buon gioco di volo, cosa rara nei tennisti che non basano il loro gioco sull’attacco. Tutte qualità che ne hanno fatto uno dei più grandi giocatori della sua epoca”.

Stefano Semeraro nel suo libro Centre Court lo ha descritto così: “Rovescio di eleganza sovrana e una facilità sconcertante nel variare con un colpo di polso gli effetti e le traiettorie. Una creatura dolce e un po’ indolente, capace di tutto come solo i bambini sanno essere, curiosa, distratta, abilissima; allo stesso tempo avida di vivere e annoiata dall’idea di farlo sempre nella stessa maniera. Un Peter Pan abbronzato e molto charmant, un giocoliere cosmopolita che con la racchetta in mano sapeva far impazzire il mondo”.

Dieci anni dopo il secondo Roland Garros, mentre Pietrangeli è ancora in attività, un suo ritratto viene firmato da Jaroslav Drobný, il ceco protagonista di una doppietta a Parigi (1951, 1952) e di un titolo a Wimbledon (1954). Drobný ne scrive nella prefazione al volume Tennis (Edizioni Mediterranee) firmato proprio da Nicola. Questo è un brano: “Penso che Pietrangeli abbia fatto più di ogni altro per il tennis italiano. Ha reso questo gioco così popolare in Italia, che, adesso, è preceduto solo dal calcio. Nicola in campo, talvolta, prendeva le cose un po’ troppo alla leggera, ed è forse questa la ragione per la quale il suo tennis aveva dell’imprevedibile. Quando era in vena, giocava da sogno. Quando era in giornata no, pareva un incubo materializzato. Nessuno, però, smetteva di vederlo giocare, con la speranza di veder apparire a sprazzi il suo genio tennistico, che – al contrario – quand’era in forma mostrava fino alla nausea. In Pietrangeli ha sempre prevalso l’essere umano sulla fredda macchina capace di giocare alla perfezione ma senza anima”.

Si tratta di un libro molto interessante da sfogliare a cinquant’anni di distanza. Riflette esattamente il senso delle parole: «ai miei tempi». Perché in quelle pagine Pietrangeli esamina uno per uno tutti gli aspetti del suo sport.

Nel 1970 il tennis è diventato Open da un paio d’anni. È ancora una stagione in cui il record migliore appartiene all’australiano Rod Laver (7 finali e 4 vinte), che si era dedicato in precedenza al circuito professionistico. Il leader del montepremi è lo statunitense Cliff Richey che quell’anno guadagna 25 mila dollari pur non avendo mai raggiunto in vita sua una finale di Slam, al massimo tre volte la semifinale. Non c’è ancora Borg sul circuito e Vilas ha appena debuttato.

Eppure Pietrangeli scrive già che “per diventare dei buoni giocatori di tennis non è sufficiente prendere la racchetta ed imparare a colpire la palla, occorre, prima di tutto, trasformarsi in atleti. Si obietterà che io mi sono inserito tra i più forti giocatori del mondo senza darmi tanta pena per la preparazione atletica, la ginnastica e cose del genere. È vero: però devo dire che, sebbene la natura non mi abbia fornito di un fisico perfetto – per me un giocatore di tennis ideale dovrebbe pesare 78 kg ed essere alto 1,85 – mi ha dato forza e vigore. Non credo di aver mai perso un match per stanchezza”.

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amillionsteps.velasca.com

È un libro molto illuminante, persino in certi passaggi che oggi potrebbero sembrare ingenui. Quando si occupa di alimentazione, Pietrangeli racconta: “Di mattina, in genere, non si comincia un match prima delle 10. Allora una bella colazione con latte, uova, burro, marmellata, pane e succo di frutta, consumata due ore o un’ora e mezzo prima dell’incontro, è quel che ci vuole. La colazione è abbondante, perché il match può protrarsi anche per tre ore. Verso le 12 si accuserebbe un vuoto di stomaco, avendo mangiato poco, con sgradevoli conseguenze per la partita. Una volta, nel corso di una partita, mi è capitato di ovviare all’appetito addentando un panino che avevo in tasca. Non c’è regola che vieti di masticare qualcosa durante il gioco, ma non è bello ed è da evitare. Il momento idoneo per rifocillarsi è quando si cambia campo”.

Pietrangeli e lo sport

Ci sono sport che gli sembra possano fare al caso di un tennista e altri meno. Questi sono i suoi suggerimenti: “Il basket si gioca con scatti brevi, repentini, velocissimi. Il cambiamento di posizione in avanti, indietro, lateralmente è simile a quello del tennis. Si salta e ci si abbassa pressoché nell’identica maniera. I punti di contatto sono tanti. Specialmente d’inverno il tennista dovrebbe dedicarsi un po’ al basket. Il calcio può far bene, perché rafforza ed irrobustisce le gambe, ma è anche pericoloso. Lussazioni, stiramenti, ecchimosi sono sempre in agguato. Io ne ho fatto parecchio e ne hanno guadagnato le mie gambe in solidità. Sono contrario al nuoto, perché stordisce i riflessi; allo sci per le fratture a volte gravissime che provoca. Ho sempre in mente Franco Olivieri, un ottimo prima categoria, che dovette abbandonare il tennis per una frattura a una gamba prodottasi sciando.

Un tennista trova congeniale il golf per l’abitudine a colpire la palla e per l’assuefazione alla rotazione del braccio che impugna la racchetta. Lo swing è differente, ma il golf come il tennis si basa tutto sulla scioltezza e l’armonia dei movimenti. Quando avrò abbandonato il tennis definitivamente mi dedicherò al golf.  Il tennis da tavolo non è affatto un surrogato del tennis, perché i numerosi punti di contatto tra di loro si trovano su differenti dimensioni. Però due grandi campioni di ping-pong, Fred Perry e Ann Haydon Jones, sono diventati dei fortissimi giocatori di tennis. Ci troviamo al cospetto di due eccezioni”.

Il miglior allenamento secondo il Pietrangeli del 1970 era il palleggio contro il muro.

“Questo esercizio va fatto con assiduità, sotto il controllo di un amico o, meglio ancora, di un maestro di tennis. È l’unico modo per imparare a colpire la palla bene e con estrema scioltezza.

Nel susseguirsi ritmico dei colpi, è possibile correggere l’impugnatura, la posizione delle gambe, la flessione delle ginocchia, perché il muro è uno specchio. Se la palla è colpita giusta, ritorna giusta, se colpita male, ritorna male, con o senza effetto, forte o piano, dritta o angolata, alta o bassa, insomma, nel modo in cui è stata battuta. È un lavoro di registrazione lento, ma inesorabile, noioso, ma fondamentale. Io ho fatto moltissimo muro fin da bambino, per strada. A Tunisi, dove sono nato, ai miei tempi di macchine che circolavano ce ne erano poche. Le vie e i muri delle villette furono i miei primi campi da tennis. Sceglievo una facciata possibilmente ben levigata con le finestre disposte alte. Vi tracciavo con il gesso, a un’altezza conveniente, una linea orizzontale lunga e larga che fungeva da rete e per ore interminabili mi divertivo a battere il ribattere la palla”.

La vita di Nicola Pietrangeli è piena di aneddoti più volte raccontati in interviste e libri. Suo padre Giulio, prima della seconda guerra mondiale, era stato un uomo ricco e temuto. Aveva studiato con il futuro presidente Bourghiba. Con l’arrivo degli alleati aveva perduti tutto ed era finito in quello che Pietrangeli chiama un campo di concentramento. La mamma di Nicola, una signora russa, era figlia di un colonnello è nipote del medico di famiglia degli zar. Aveva un passaporto francese da esule anti-bolscevica.

Il campo di prigionia era a Gammarth, a 300 km da casa. Nicola e sua madre andavano due volte a settimana a far visita al signor Giulio e in una di quelle occasioni, a Nicola capitò di giocare il primo torneo di doppio con lui. Vinsero. Il premio fu un pettine bianco prodotto con la scheggia di una bomba.

Quando Giulio Pietrangeli venne espulso dalla Tunisia e la famiglia tornò in Italia, a Roma, lavorò come becchino. Nicola ogni tanto gli dava una mano. Finché il padre non si fece affidare il franchising per l’Italia – diremmo oggi – delle magliette Lacoste. Nicola vestì Fred Perry per dispetto. Perché suo padre si rifiutava di coinvolgerlo.

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Nicola Pietrangeli e un giovane Adriano Panatta, entrambi vestiti Lacoste (modernaut.blogspot.com)

“A Gstaad lo andavano a vedere Elizabeth Taylor e Richard Burton, nella Swinging London si fidanzava con l’attrice Samantha Eggar, mollata perché pretendeva dormire con la finestra aperta anche di notte. A Roma passava il pomeriggio a giocare a carte con Marcello Mastroianni e le serate con Virna Lisi e Walter Chiari. A Los Angeles si divertiva in doppio con Charlton Heston e Anthony Quinn, a Madrid con il futuro re Juan Carlos, a Montecarlo con Ranieri di Monaco. A Parigi, dopo un match di Davis vinto contro i francesi nel 56, conobbe Alain Bernardin, il patron del Crazy Horse, e finì per fidanzarsi con una meravigliosa stripteaseus in pelliccia bianca. Il suo compagno di doppio Orlando Sirola lo accusava di frequentare solo la gente ricca, ma Pietrangeli su quel vizio ci ha costruito una carriera, la seconda, quella di imprenditore di sé stesso. Anche a costo di rinunciare alla propria identità, come quando a Indian Wells si ritrovò a rappresentare la pasta De Cecco, sponsor di un galà di beneficenza organizzato da Chris Evert e Barbara Sinatra, la moglie di Frank. Scambiato per il signor De Cecco, incapace di trovare il coraggio di chiarire l’equivoco, finì per passare la serata a tavola con The Voice”.

Stefano Semeraro, Centre Court (Absolutely Free)

Pietrangeli raccontato da Pietrangeli

Pietrangeli, quando ha giocato la prima volta nel Principato?

«Nel ’51, mi ci ha portato papà con la Topolino: lui al torneo veterani e io juniores».

Com’era il Country Club?

«Era più o meno uguale, si giocava su tre campi invece che su uno solo, non c’erano le tribune… All’inizio l’ha finanziato il signor Butler. La figlia Gloria ha pagato i pochi soldi che si davano ai giocatori, e quando è andata in disgrazia non aveva i soldi del biglietto».

C’era già la festa dei giocatori?

«Gloria era appassionata di teatro, voleva fare l’attrice, e la festa era ripresa anche dalla tv… Lea (Pericoli) una volta ha fatto lo striptease, lo champagne era gratis, il giorno dopo c’erano sempre le più grandi sorprese del torneo, eravamo tutti ubriachi: io una volta mi sono svegliato in macchina, non sapevo nemmeno dov’ero. La swinging Montecarlo è finita col professionismo vero».

(Intervista di Vincenzo Martucci, La Gazzetta dello Sport, 13 aprile 2013)

 

Cosa l’ha avvicinata al tennis?

«Mio padre. Fino a 10 anni giocavo a pallone nei ragazzi della Lazio, ero bravo. Sono stato prestato alla Viterbese e alla Ternana. Adesso i calciatori prendono tanti soldi, ma all’epoca io volevo viaggiare, col pallone lo si faceva poco mentre avevo intravisto nel tennis un modo per girare. Una volta sono andato a Napoli e mi son detto: “Vuoi vedere che arrivo fino a Milano?”».

Il tennis come è cambiato?

«Noi giocavamo soprattutto per divertimento, era un modo per viaggiare, conoscere gente e belle ragazze. Gli atleti di oggi non se lo possono permettere, una partita vale magari 500 mila dollari. Oggi farei come Federer e Nadal. Finisci la carriera con 100 milioni di euro in tasca e a 32-33 anni ti dai alla bella vita».

(Intervista di Stefano Semeraro, La Stampa, 9 settembre 2013)

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Nicola Pietrangeli e Lea Pericoli (amillionsteps.velasca.com)

«Fra noi non è mai successo niente: non eravamo niente male, tutti e due, ma io avevo sempre un altro e lui almeno due! Siamo stati complici, lui mi copriva, mi giustificava perché, pur avendo sempre un comportamento politically correct, non mi sono mai fatta mancare niente nelle mie passioni. Sembravamo due amanti perché io scivolavo nella sua stanza d’hotel, ma per giocare a carte, ore e ore a poker, in 4 o 5, o a ramino e scala 40 noi due. E siamo sempre amici».

(Intervista di Vincenzo Martucci a Lea Pericoli, La Gazzetta dello Sport, 22 marzo 2015)

A Dario Cresto-Dina che gli parlò per il libro Sei chiodi storti, Pietrangeli disse: «Lo sport non è come tanti altri mestieri nei quali più invecchi e più diventi bravo. E il tennis è lo sport più difficile, lo sport dei pazzi e degli uomini soli. È cattivo, non esiste il pareggio, sai quando entri in campo ma non quando ne uscirai».

Perciò quando “il sommo Nic” dice «ai miei tempi» io credo che intenda solo che il tempo passa e tu non ci puoi fare niente.

“Io sono l’unico vivo che ha una cosa intitolata a suo nome. Il perché non lo so. In Italia non c’è uno che ha una fontana, una strada, solo io. Questo mi riempie di grande orgoglio. Allora io dico sempre sapete dove sarà il mio funerale? Il funerale si farà sul campo mio al Foro Italico. L’ho già chiesto a Malagò. La ragione è semplicissima. C’è il parcheggio. All’ultimo funerale pioveva e stavo con un amico e ho detto: “Ma la macchina dove la mettiamo?”, “Oddio piove che facciamo?”. Se piove, si rimanda al giorno dopo. Poi la gente deve stare bene, deve esserci la musica. Aznavour, un pezzetto di Barry White, gran finale con Sinatra che canta My Way”.

(Intervista di Walter Veltroni, Corriere dello Sport-Stadio, 1 luglio 2017)

 

Questo articolo è stato rielaborato per Overtime ed è tratto da “lo Slalom”, una newsletter mattutina per abbonati: una selezione ragionata dei temi e dei protagonisti del giorno, con contenuti originali o rielaborati, brevi estratti degli articoli più interessanti usciti sui quotidiani italiani e stranieri, sii siti, i blog, le newsletter e le riviste specializzate, con materiale d’archivio, brani di libri e biografie. Una guida e un invito alla lettura e all’approfondimento, con montaggio a cura di Angelo Carotenuto.

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  1. […] di aver cominciato solo dopo i quarant’anni, cioè ormai monco per sempre, a praticare il tennis, che dopo il pugilato è considerato lo sport più duramente agonistico, perché è come mettersi […]

  2. […] mancino purosangue, una fascia tra i capelli come il suo amico/rivale Borg, introverso eppure amatissimo dalle donne. Poeta in campo e fuori – scriveva poesie, una la dedicò a Carolina di Monaco -, terraiolo […]

  3. […] è nata nel 1943 a Long Beach da una famiglia fortemente tradizionalista; ha iniziato da bambina a giocare a tennis e a soli diciassette anni, in coppia con Keren Hantze Susman, ha vinto il doppio femminile di […]

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