Ali color granata

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meroni

È passato del tempo, ma un giorno ho visto una farfalla correre.

Proprio così. Correre.

Le sue ali erano color granata e aveva gambe magre e veloci. E correva.

Correva su un prato verde, schivando tutto ciò che le era di ostacolo. Pareva quasi che volasse. E invece correva.

 

Era piccola quando aveva iniziato a correre, nel campetto di una chiesa in una cittadina lombarda vicino a un celebre lago. Correva ed era tutta guizzi, scatti e volate.

Ben presto molti si accorsero di quanto fosse veloce e cominciarono a radunarsi per vederla correre e incitarla. Pochi, però, capirono che si trattava di una farfalla.

Forse perché era ancora una crisalide e le sue ali non si erano aperte: aveva bisogno di continuare a correre per riuscire a trasformarsi.

Gigi Meroni alle prese con il biliardo nel corso del ritiro della Nazionale nel 1966. (corriere.it/Olycom/Cesare Galimberti)

Ma alla farfalla non importava.

Era pronta a sacrificare tanto per le sue corse nei prati, anzi lo aveva fatto e avrebbe continuato. Ma non avrebbe mai rinunciato a inseguire le cose che davano un senso alla sua vita anche fuori da essi.

E quindi continuava a correre.

 

Correva. Sempre e comunque.

Sulle punte dei pennelli che scorrevano sulle tele e le rendevano dipinto; nelle parole che raccontavano poesie alla carta; nelle pieghe e nelle cuciture degli abiti stravaganti che disegnava da sola e con cui ornava le sue ali; sulle note di una melodia jazz o rimbalzando sui frenetici colpi di batteria di una canzone beat.

Nell’amore, anche: era corsa fino a Roma per raggiungerlo, perché avevano provato a rubarglielo e allora lei era andata a riprenderselo. Non può essere mai sbagliato, l’amore, ma gli altri lo volevano tale perché non seguiva le regole, perché “così è peccato e non si può”!

E allora la farfalla decise che non le sarebbe importato. Degli altri.

 

Già, gli altri.

L’adoravano quando la domenica correva nel prato.

Ma non gli perdonavano le sue corse della vita, questo suo essere diversa, questo suo bisogno di essere sé stessa e non sottomettersi.

Mai.

Neanche quando arrivavano le critiche.

Neanche quando arrivavano le esclusioni.

Neanche quando arrivavano i fischi e gli insulti.

Neanche quando i giudizi e i pettegolezzi diventavano così assordanti da diventare macigni e appesantire le sue volate.

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Gigi Meroni al termine di Torino-Sampdoria, giocata poche ore prima di morire. (calcio.fanpage.it)

Quella domenica di metà ottobre le cose sembravano essere sul punto di andare ognuna al proprio posto.

La farfalla aveva corso veloce e il prato era stato benevolo.

Aveva festeggiato. Era felice.

Anche altro, infatti, stava per risolversi: il suo amore sarebbe diventato “giusto” e lei avrebbe potuto correre più leggera, forse addirittura volare.

 

Voglio credere che stesse pensando a questo, quando accadde. A come tutti i tasselli stessero piano piano combinandosi e il puzzle stesse prendendo forma.

Uno scarto sbagliato, uno stridio di freni, uno schianto.

 

La farfalla è lì, in terra, in quel viale buio.

Le gambe, le sue velocissime gambe incrociate, in maniera grottesca, un’angolazione innaturale.

Urla, mani ai capelli, folla che si accalca, l’ambulanza che non arriva.

Il futuro era lì, a un soffio, e adesso è cristallizzato in un’immutabile possibilità incompiuta. Immobile.

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Illustrazione del libro “Gigi Meroni. Il ribelle granata” di Riccardo Cecchetti, presentato ad Overtime 2013.

Non corre più, la farfalla.

La trasportano di corsa e per una volta non è lei a condurre la gara. Ma lei forse neanche lo sa. O forse sì.

Forse ha capito che non potrà più correre, né sul campo, né nella vita: niente più prato la domenica, niente più jazz, niente poesia o dipinti. Niente più amore, né giusto, né sbagliato.

E allora, per la prima volta in vita sua, la farfalla spiega le sue ali granata e vola via.

Ad accompagnarla, in quel primo e ultimo volo, la nostalgia di una gallina e l’urlo straziante di una giovane donna nei corridoi del pronto soccorso dell’ospedale Mauriziano.

 

Gli spalti erano gremiti quel 22 ottobre, ma era il silenzio a riempire lo stadio.

Il rumore delle pale, i fiori che cadono, poi spostati tutti sulla fascia destra.

Quindi il fischio d’inizio, i cori, le urla, i goal. Quattro.

L’ultimo lo segnò il giocatore con la maglia numero 7 che subito si precipitò a prendere il pallone incastrato nella rete e lo alzò verso il cielo.

Sembra che in quel momento una farfalla stesse volteggiando nell’ azzurro che sovrastava il Comunale. Aveva le ali color granata.

 

Torino 15/10/1967 – Pesaro, 15/10/2020

 

Foto copertina: corriere.it

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