Bruno Pesaola e la sua vita romanzesca

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Foto copertina – magazinenapoli.it

Sembra ieri ma sono già trascorsi otto anni da quel 29 maggio 2015, quando Bruno Pesaola ci ha lasciato. Una vita intensa, da romanzo la sua. Ricca di esperienze, aneddoti, incontri, sliding doors, di gol e notti piene di fumo e whisky. Con due amori travolgenti: Napoli e la moglie Ornella, una miss conosciuta ai tempi di Novara e scomparsa troppo prematuramente.

Pesaola cresce ad Avellaneda, città portuale nei pressi di Buenos Aires, sede di due importanti club calcistici: l’Atletico Indipendiente e il Racing, società in cui si è formato anche un campione dei giorni nostri, Lautaro Martinez. Il padre di Pesaola, Graziano, è un calzolaio, un emigrato italiano che viene da Montelupone, provincia di Macerata. Una terra che ci sta particolarmente a cuore, che ospita Overtime ormai da dodici anni. Una terra, è sempre bene ricordarcelo, da cui nel secolo scorso sono partiti carichi di speranza migliaia e migliaia di uomini e donne alla ricerca di un futuro migliore e dignitoso per se stessi e i loro figli.

Bruno fin da piccolo ha una grande passione, il calcio, incoraggiata e sostenuta da Giordano, il fratello maggiore. A 14 anni partecipa a un provino ed entra nelle giovanili del River Plate. E qua che la favola ha inizio. Gioca assieme ad un certo Alfredo Di Stefano e il suo allenatore è un altro personaggio dalla vita romanzesca, Renato Cesarini. Proprio lui, l’uomo della famosa “zona”, campione fuori dagli schemi e dal tempo, che dopo una fantastica carriera ha cresciuto una nuova generazione di talenti. In questo periodo a Bruno, alto 165 centimetri, viene affibbiato il soprannome “el Petisso”, “il Piccoletto”, che non lo abbandonerà più per tutta la carriera.

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it.wikipedia.org

Il mancino raffinato, i guizzi sulla fascia di Pesaola non passano inosservati. Non molti lo sanno, ma Bruno doveva andare al Toro, al Grande Toro. Un trasferimento mancato a causa del servizio militare espletato in Argentina. Il sogno sfumato di giocare in quella squadra fantastica e sfortunata, insieme a Valentino Mazzola e al suo idolo Virgilio Maroso, il più forte terzino in Europa dell’epoca.

In Italia giunge nel 1947, ingaggiato dalla Roma. Nel Bel Paese Mumo Orsi – il violinista che fece grande la Juventus, anche lui di Avellaneda – era arrivato in piroscafo; Renato Cesarini era sbarcato al porto di Genova a bordo del transatlantico Duilio, dopo un viaggio da mille e una notte. Pesaola utilizza l’aereo. Ma, si badi bene, non si tratta di un volo diretto Buenos Aires – Roma Fiumicino in business class con tutte le comodità del caso: è un viaggio interminabile, con scali a Montevideo, Rio, Natal, Dakar, Lisbona con pernottamento, Madrid, Ginevra, Roma, finalmente.

Nella Capitale Petisso si ambienta rapidamente: è già una città in pieno clima Dolce Vita e le occasioni di divertimento non mancano. Cene in una trattoria di Via Frattina, la frequentazione di Via Veneto, l’amicizia con cantanti e attori celebri come Rascel, Dapporto, Walter Chiari e la Masiero, le serate trascorse all’uscita del Teatro Valle a rimorchiare ballerine. Le prestazioni sul campo di Testaccio sono altalenanti, il rendimento condizionato da una serie di infortuni tra cui la rottura di tibia e perone dopo uno scontro con un giocatore del Palermo. Dopo appena due stagioni la Roma non ha più fiducia in lui e sembra prospettarsi un mesto ritorno in Argentina. E’ il primo importante bivio nella carriera di Pesaola. Che inaspettatamente riceve un telegramma da Novara, firmato Silvio Piola: “Petisso vieni a Novara. Ti proviamo. Io ho fiducia. Ti ho visto giocare e mi sei piaciuto. Dai vieni. Ciao, Silvio”. Detto, fatto. Nella città piemontese Pesaola dà il meglio, fa la vita di un atleta professionista, conosce la futura moglie, confeziona assist a ripetizione per Piola che a 39 anni, grazie anche ai suoi cross, realizza la bellezza di 22 reti in campionato.

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rivistacontrasti.it

Le sue prestazioni non sfuggono ai club più blasonati. E’ il secondo bivio, bisogna scegliere la nuova squadra. Accetta la proposta del Napoli. E mai scelta fu tanto azzeccata. E’ amore a prima vista. “Sono un napoletano nato per caso all’estero” gli piaceva ripetere. Un affetto – ultra ricambiato – per una città come Napoli, “un posto dove non ti senti mai solo”. Con la maglia azzurra tra il 1952 e il 1960 disputa quasi duecentocinquanta partite – quasi tutte al vecchio stadio Vomero, le ultime nove al San Paolo -, prima di tornarvi in tre mandate da allenatore. Alla sua prima esperienza da tecnico il Napoli conquista la serie A e il primo trofeo nella storia del club, la Coppa Italia, unica squadra di Serie B ad essere mai riuscita ad aggiudicarsela.

Sono anni di gioie e sofferenze. Promozioni e salvezze risicate. Con la soddisfazione di condurre nel 1967/68 il Napoli al secondo posto in classifica, miglior risultato di sempre nell’epoca premaradoniana. L’impresa, non meno semplice, nel 1965/66 di aver motivato e fatto convivere in attacco due prime donne come Sivori e Altafini. Un rapporto speciale con Gioacchino Lauro, figlio del Comandante, dirigente calcistico lungimirante, capace di portare a Napoli Dino Zoff e Claudio Sala. Le partite vissute con intensità ma senza scalmanarsi a bordo campo, indaffarato a fumarsi 40 sigarette ogni match, con tutto quel fumo che non gli impediva di leggere benissimo il gioco. E quel cappotto di cammello portafortuna, immortalato nelle foto al San Paolo, indossato anni prima di Alain Delon nel film “La prima notte di quiete” e di Marlon Brando in “L´ultimo tango a Parigi”. La capacità di prevedere le partite, scoprire giocatori, modificare ruoli, le strategie studiate nella sua casa di via Michelangelo da Caravaggio, di fronte al mare di Pozzuoli.

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Napoli, ma non solo. Pesaola raggiunge l’apice, il suo risultato più eclatante da tecnico a Firenze, conquistando con i Viola lo scudetto del 1969. Sconfiggendo l’agguerritissima concorrenza del Milan e del Cagliari di Gigi Riva con una squadra tatticamente perfetta, corta, organizzata, imprevedibile nelle giocate offensive. Quel titolo è una vera rivoluzione, una festa, un’impresa inaspettata, destinata a rimanere per sempre nel cuore di tutti i fiorentini e fino a oggi mai più ripetuta, replicata. Nemmeno ai tempi di altri argentini come Passarella e Batistuta.

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Bruno Pesaola ai tempi della Fiorentina, mentre palleggia con i suoi ragazzi (it.wikipedia.org)

Persona allegra Pesaola, con la capacità di sdrammatizzare, dalla battuta pronta e sferzante. Come quella ai tempi della panchina del Bologna. Un giornalista gli chiede: “scusi, Pesaola, lei ci ha preso in giro, non aveva detto che sarebbe venuto qui a Bergamo per giocare tutti all’attacco? E invece il Bologna non ha mai superato la metà campo…”. E lui risponde serafico: “si vede che l’Atalanta mi ha rubato la idea”.

Un uomo vero, lontano anni luce dalla moderna schiavitù del politicamente corretto. Che potevi tranquillamente trovare in un locale di Napoli fino alle quattro del mattino a parlare di sé, di calcio, della vita, inframezzando il racconto con una partita a poker e un bicchierino di whisky. Che non nascondeva la sua estraneità e avversione al calcio moderno. Maledicendo gli inventori del pressing che hanno reso le partite così brutte e noiose, con un po’ di bel gioco che si può ammirare solo dopo il 2-0 per una squadra, a schemi ormai saltati.

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Un uomo che sapeva scherzare e stare al gioco, in questo caso con il giornalista sportivo napoletano Felice Caccamo, alias Teo Teocoli (roadtvitalia.it)

Altra cosa che non gli andava proprio giù: gli ingaggi. Così sintetizzò il suo pensiero al riguardo in una stupenda intervista rilasciata a Gianni Mura per Repubblica: “dare 4-5 miliardi a un giocatore è immorale, uno basterebbe. Se a Tizio più di uno non lo dai, dove va? Mica tutti sono richiesti dal Real o dal Chelsea. E allora si accontentano, perché un altro lavoro non lo sanno fare”.

A celebrare Bruno e il romanticismo di un calcio che non c’è più, meglio di tante altre parole, lo striscione esposto qualche anno fa dalla Curva B del San Paolo durante il minuto di raccoglimento in sua memoria: “Sei il calcio che mi hanno raccontato, quello di mio padre che io ascoltavo incantato. Parlava di uomini e maglie e di epiche battaglie. Ti ritroverò ogni mattino nei miei sogni da bambino. Addio Petisso”

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