La rivoluzione di Allen Iverson

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«Non posso rimanere in silenzio di fronte alle ingiustizie».

Zlatan Ibrahimović da una parte, LeBron James dall’altra. Calcio e basket, rappresentati da due grandi sportivi figli della stessa generazione, quella che si è presa la scena all’alba del nuovo millennio, e che in comune – al di là delle conseguenze più strettamente materiali che il praticare sport ai loro livelli evidentemente comporta – hanno anche dei trascorsi a Los Angeles, un talento che non si vede proprio tutti i giorni e una padronanza del gioco fuori da ogni logica se rapportata alla carta di identità.

Due icone dello sport moderno, che dai loro primi passi in questo mondo si sono visti costretti a fare i conti con una serie di problematiche – agonistiche e non – per certi versi comparabili, concepiscono però la vita privata in maniera diametralmente opposta. Il silenzio politico di Zlatan Ibrahimović da una parte, l’impegno sociale di Lebron James dall’altro.

Al rientro negli spogliatoi, la mentalità vincente dei due imbocca strade ben diverse. Svestiti i panni dell’atleta, tocca all’uomo entrare in gioco, con le sue opinioni e i suoi punti di vista, che poco o nulla hanno a che fare con lo spettacolo del campo.

Nello scontro ideologico a distanza andato in scena nelle ultime settimane, è evidente come anche il contesto sociale statunitense reciti una parte significativa nella scelta della direzione da intraprendere. Negli ultimi anni quella di LeBron non è stata certo l’unica voce a stelle e strisce a levarsi in favore degli ultimi: basti pensare agli esempi più o meno recenti di Colin Kaepernick e Megan Rapinoe, alle continue prese di posizione da parte dei giocatori NBA nei confronti dell’ex presidente Donald Trump o, ancora oggi, al sostegno delle istanze promosse dal movimento Black Lives Matter.

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LeBron James a un evento di beneficienza promosso dalla sua Family Foundation. (empiresolar.net)

Politica e diritti sociali sono temi su cui, almeno in America, gli atleti si espongono in maniera sempre più frequente e consapevole. Dal canto suo, lo stesso LeBron – che da almeno dieci anni rappresenta uno dei volti più noti e influenti dello sport a stelle e strisce – non ha mai fatto mancare il suo appoggio alle cause degli ultimi, offrendo concretamente e in più occasioni una mano a tante famiglie e ragazzi in difficoltà.

Eppure, fino a qualche anno fa non era poi così facile strappare un commento su argomenti scottanti e potenzialmente scomodi alle stelle dello sport. Se lo stesso Michael Jordan, l’uomo che ha trasformato la pallacanestro americana in un fenomeno planetario, giustificava il suo scarso impegno sociale con un eloquente «anche i repubblicani comprano le sneakers», si fa presto a capire che da una ventina d’anni a questa parte il vento sia radicalmente cambiato.

E, almeno in un certo senso, a farlo cambiare ha contribuito anche un ragazzino cresciuto come tanti con il mito di Jordan, che con i suoi crossover e un carattere decisamente fuori dagli schemi è riuscito in almeno due imprese: battere MJ nell’uno contro uno e avvicinare il basket alla gente comune.

Crescere ad Hampton

Allen Iverson nasce ad Hampton, Virginia, il 7 giugno 1975. Sua madre Ann ha appena quindici anni, mentre la vocazione paterna non dev’essere stato il cavallo di battaglia di Allen Broughton – diciassettenne noto nell’ambiente malavitoso locale come “The fucking Boss” – che ben presto realizza di non essere tagliato per le responsabilità e abbandona i due a un destino decisamente incerto.

Stando a quanto si dice in giro, Hampton non dev’essere proprio il posto ideale per crescere un figlio. In una città in cui violenza e criminalità sono all’ordine del giorno, Ann Iverson fa di tutto per tenere Allen lontano dai guai, ma la sua sembra essere la più classica delle battaglie perse in partenza. Non sarà un cattivo ragazzo, ma anche solo per una questione statistica sfuggire da frequentazioni quantomeno discutibili, se non addirittura pericolose, non è certo impresa facile da quelle parti.

Oltretutto, dopo qualche anno di relativa tranquillità, con l’arresto per spaccio del nuovo compagno della madre la famiglia Iverson ripiomba nuovamente in un dramma tutt’altro che privo di ripercussioni. Al banco di scuola Allen sembra preferire di gran lunga il campetto, dove canestro dopo canestro riesce a individuare nello sport la sua personale valvola di sfogo, la sua chance di evadere da un presente di miseria e sofferenza.

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Iverson ai tempi del liceo. (dailypress.com)

Allen Iverson, AI, colui che di lì a qualche anno diventerà “The Answer”, per i ragazzi del quartiere non è altro “Bubba Chuck”, il ragazzino che dà spettacolo con il pallone, e non solo quello da basket. Già, perché ai tempi del liceo il giovane Iverson, oltre ad essere la point guard titolare della scuola, gioca anche da quarterback nella squadra di football della scuola e a 16 anni si laurea campione di Virginia in entrambe le discipline.

Il miglior giocatore liceale dell’anno – sia di basket che di football – fiuta l’odore del riscatto, ma proprio quando il suo nome inizia a circolare in ottica college la vita decide di riservargli lo schiaffo che rischia di mandare i suoi sogni in frantumi. È il 14 febbraio 1993 quando Allen Iverson viene coinvolto in una rissa nella sala bowling di Hampton. Qualche parola di troppo e si passa subito alle mani: Iverson, a detta degli agenti, colpisce una ragazza con una sedia in quello che avrebbe assunto i tratti di uno scontro bianchi contro neri. Bubba Chuck e tre dei suoi amici finiscono in manette.

Niente ultimo anno di liceo, ma soprattutto niente basket e football: in un solo colpo, Allen perde le due cose che amava di più al mondo. Per sua fortuna, le versioni fin troppo contraddittorie fornite dai testimoni convincono il governatore della Virginia a concedergli la grazia dopo quattro mesi di carcere, ma con quei precedenti non è facile riuscire a trovare qualcuno disposto a dare una seconda chance a quel ragazzo apparentemente difficile. Le suppliche della madre al leggendario coach John Thompson, però, vanno a buon fine, e Iverson riesce ad ottenere una borsa di studio alla Georgetown University di Washington.

I don’t wanna be Jordan

Se l’etichetta di bad boy aveva spaventato più di un addetto ai lavori, alla fine si sa, è sempre il campo ad avere l’ultima parola. Le sapienti mani di coach Thompson non ci mettono molto a grattare la ruggine accumulata nei mesi trascorsi in cella: la stella di Iverson riprende a brillare come ai tempi del liceo, illuminando i palazzetti più importanti d’America.

È il 1996 quando Iverson si rende conto che ormai Washington e gli Hoyas iniziano a stargli stretti e che, già da qualche mese, l’NBA lo aspetta a braccia aperte. «La scuola è importante, ma la mia famiglia ha bisogno di molte cose in questo momento» dichiarerà alla stampa dopo aver annunciato la scelta di dichiararsi eleggibile al Draft.

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Allen Iverson festeggia la prima chiamata al Draft 1996 con la canotta dei suoi Sixers. (foxsports.com)

Con la prima scelta assoluta di quell’anno, i Philadelphia 76ers si assicurano i 183 centimetri di talento, atletismo e passione offerti dal prodotto di Georgetown, che sin dalle prime uscite stagionali dà l’impressione di poter essere “the next big thing” della lega. Certo, “big” si fa per dire, ma nonostante la stazza non esattamente da manuale, Iverson lascia tutti a bocca aperta. È la cosa più veloce che si sia mai vista su un parquet, non ha paura di niente e di nessuno.

C’è un aneddoto che descrive alla perfezione il suo impatto nel basket dei grandi. Il 12 marzo 1997 nella Città dell’Amore Fraterno arrivano i Bulls di Michael Jordan, uno degli idoli d’infanzia di Iverson. Allen non è certo tipo da favori reverenziali e Phil Jackson lo sa: è per questo che ad occuparsi del piccoletto di Philly è sistematicamente His Airness. Palla ad Iverson, Jordan di fronte a lui. Palleggio incrociato, finta e Jordan abbocca: due punti per Philadelphia. Chi si aspetta un’esultanza iconica rimarrà deluso. Paura forse nessuna, ma rispetto ce n’è da vendere. «L’ho mandato al bar, eppure è quasi riuscito a stopparmi» dirà, incredulo, ai suoi compagni nell’intimità dello spogliatoio.

I want to look in the mirror and say “I did it my way”

Nel giro di qualche mese, Iverson è già sulla bocca di tutti: il giocatore ha ancora un po’ di strada da fare prima di sedersi al tavolo dei grandi, ma il personaggio ruba l’occhio e monopolizza l’attenzione, nel bene e nel male. Il talento è sotto gli occhi di tutti, proprio come tatuaggi, treccine, abiti più larghi del dovuto e quei precedenti che puntualmente riaffiorano, come uno scheletro che non vuole saperne di andarsene dall’armadio.

Nella lega dell’austero commissioner David Stern, il numero 3 di Philadelphia rappresenta un’inaspettata ventata di freschezza, un’eccezione che solo qualche anno più tardi raccoglierà i suoi frutti e potrà ambire a diventare regola. Nel frattempo, Iverson semina cultura hip hop a suon di canestri, slang e musica rap, dettando legge sul parquet e anche nell’armadio.

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Iverson e il rapper Method Man. (rebloggy.com)

A ispirarlo in campo e nella vita privata è il flow di Tupac e Notorious B.I.G. – «Mi ricordano sempre da dove sono partito, da dove tutto ha avuto inizio», spaziando dalla sua East alla West Coast; lui stesso si metterà alla prova con basi e microfoni, nonostante il malcontento dei piani alti, tracciando la strada per cestisti col vizio del rap come Damian Lillard, a.k.a. Dame D.O.L.L.A.

Un po’ troppe novità tutte insieme per un ragazzino finito in carcere solo qualche anno prima e ora alle prese con un mondo, quello della pallacanestro americana, forse non del tutto pronto ad accoglierlo. Le sue stravaganze – almeno per l’epoca – e il suo essere senza filtri lo portano ben presto a scontrarsi con l’opinione pubblica, che reputa i suoi atteggiamenti potenzialmente deleteri per gli equilibri della squadra. Forse è anche per questo motivo che nel 1997 il front office dei Sixers sceglie di affidare la rosa a un custode della tradizione come coach Larry Brown.

Eppure, nonostante le diversità e le tante divergenze di vedute nei sei anni di convivenza, Brown intuisce che è proprio da AI che Philadelphia deve cercare di ripartire per tornare ai vertici della Eastern Conference. Il resto della squadra, infatti, è composto da onesti mestieranti, per di più neanche particolarmente adatti al gioco di Iverson: nel giro di qualche stagione, verranno più o meno tutti messi alla porta e saluteranno Philadelphia, lasciando il posto a nuovi innesti che, al netto di un tasso tecnico non elevatissimo, consentiranno alla squadra di risalire la china.

Le difficoltà di certo non mancano, con Iverson accusato dal suo allenatore di darsi da fare più fuori che dentro il campo – per gli amanti delle conferenze stampa infuocate: sì, we’re talkin’ ‘bout practice, anche se con un paio d’anni di anticipo – e a un passo dall’addio dopo la sconfitta nelle Finali di Conference del 2000 contro i Pacers, ma dopo un’offseason trascorsa da separato in casa e con le valigie in mano The Answer si vede costretto a fare un passo indietro, per il bene di tutti. Durante un colloquio con coach Brown arriva l’insperata fumata bianca: Iverson resta e promette di rigare dritto, una volta per tutte.

Siglata la pace con l’ambiente Sixers, Iverson diventa capitano della squadra e vive l’annata migliore della sua carriera, trascinando Philadelphia alle Finals. Il rap del bad boy di Hampton, riconciliatosi un po’ a sorpresa con le armonie classiche di coach Brown, deve però vedersela con i Lakers di Shaquille O’Neal e Kobe Bryant.

Al di là dei lampi di Iverson e di un Dikembe Mutombo ormai giunto a poche fermate dal capolinea della sua gloriosa carriera, i Sixers hanno ben pochi assi nella manica per sperare di far saltare il banco contro una delle squadre più forti di tutti i tempi. Eppure, Gara-1 va a Philly grazie allo straordinario assolo firmato The Answer, che nel finale mette a segno uno dei canestri più iconici di sempre.

50 secondi al termine dell’overtime, 101-99 per Philadelphia allo Staples Center di Los Angeles. Allen Iverson ha di fronte a sé Tyronn Lue, attuale allenatore dei Clippers che in quei Lakers era poco più dell’ultima ruota del carro. Crossover di quelli da mandare al bar Michael Jordan – figuriamoci Tyronn Lue – step-back, tiro…

In realtà Lue non se la cava neanche troppo male, ma il suo destino è segnato. Mentre si gira a guardare il pallone viaggiare verso il canestro, lo slancio lo porta a fare qualche passo all’indietro, fino ad inciampare nel piede destro del suo avversario. Lue resta lì, inerme, consapevole del suo destino di vittima sacrificale sull’altare della leggenda di uno dei più grandi e controversi giocatori di tutti i tempi. Il suo idolo, Allen Iverson.

Nell’albo d’oro, però, non è così che funziona. Non resta nessuna traccia di quel gesto che ha segnato una generazione di appassionati e addetti ai lavori. Indelebile nella memoria collettiva quanto distante dal politicamente corretto, dalle logiche di spogliatoio e dal dolce sapore del successo di squadra: se il destino di Lue era quello di cadere ai piedi dell’onnipotente The Answer, il suo giustiziere sembra condannato a combattere – invano – quarantotto minuti a sera per riscattare una vita di ingiustizie.

I Lakers conquistano il titolo NBA ribaltando la serie e chiudendola sul 4-1. Da quel maledetto step over, la carriera dell’allora ventiseienne Iverson sembra avviarsi verso un lento e inesorabile declino. Forse non a livello di prestazioni individuali, dato che, almeno in un primo momento, i numeri sembrano reggere l’urto della scottatura, ma ad ogni modo i Sixers non riusciranno più a ripetere l’exploit del 2001 e il loro leader finirà presto per perdere ogni residua motivazione, arrivando qualche anno più tardi a chiedere ufficialmente la cessione.

Il 19 dicembre 2006 AI diventa un nuovo giocatore dei Nuggets. Tra le montagne del Colorado, Iverson ha ora l’opportunità di formare con un giovane Carmelo Anthony una coppia offensivamente devastante, ma l’amore tra AI e Denver tarda a sbocciare ed è già tempo di cambiare aria. Detroit prima e Memphis poi, senza però tornare ai fasti di un tempo.

nba.com

Ormai manca poco, ma la storia di The Answer non è ancora finita. L’ex MVP sente di avere ancora qualcosa da dare al basket, e quale miglior posto di casa sua per provare a tornare quello di un tempo? È il 7 dicembre 2009 quando il pubblico di Philadelphia accoglie con una standing ovation il figliol prodigo, di ritorno all’ovile come nelle migliori parabole. Purtroppo però, sentimentalismi a parte, è evidente come i suoi ultimi jolly Allen se li sia già giocati da un pezzo. Il 22 febbraio 2010 AI lascia i Sixers per occuparsi a tempo pieno della salute di sua figlia Messiah, affetta dalla sindrome di Kawasaki.

Il 30 ottobre 2013, dopo una tutt’altro che indimenticabile parentesi in Turchia, Allen Iverson annuncia il suo ritiro dal basket professionistico, facendo calare il sipario su una carriera a suo modo leggendaria, trascorsa a giocare a mille all’ora e a fregarsene di qualsivoglia convenzione sociale.

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Allen Iverson portato in trionfo dalla sua gente dopo una vittoria ai Playoff. (as.com)

L’NBA che lo saluta riservandogli un posto d’onore nella Hall of Fame è molto diversa da quella che diciassette anni prima l’aveva accolto con una buona dose di diffidenza. I repubblicani comprano ancora le sneaker, ma nel frattempo la sensibilità di atleti e dirigenti è radicalmente cambiata, vuoi per l’inesorabile scorrere del tempo, vuoi per l’influenza di personalità come Iverson, in grado di parlare senza filtri al popolo, agli emarginati, ai figli di quella black culture che adoravano i vari Michael Jordan, Larry Bird e Magic Johnson senza però riuscire a riconoscersi a tutti gli effetti in loro.

In diciassette anni di onorata e travagliata carriera, Iverson è riuscito a istituire un filo più o meno diretto tra la complessa realtà di strada e i più prestigiosi parquet americani, sfruttando la sua visibilità per dare voce – rigorosamente fuori dal coro – alle istanze della working class statunitense, senza però mai ergersi a modello da imitare.

Il titolo a lungo inseguito non è mai arrivato ma, proprio come nelle migliori intenzioni, l’immagine riflessa allo specchio di casa Iverson non somiglia affatto a quella dei grandi del passato. Limpida, anche se non priva di ombre. È quella di Allen, detto The Answer, eroe con qualche macchia, ma di sicuro senza paura.

 

Foto copertina – asinazionale.it

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