Alfredo Martini, il gregario divenuto campione da ct dell’Italia

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Il 18 febbraio 2023 avrebbe compiuto 102 anni Alfredo Martini, ambasciatore del ciclismo italiano per tanti anni. Persona schietta e mai banale, riverita, influente e molto ascoltata per il bagaglio di esperienza e l’impareggiabile saggezza. Un guru, molto umano però, perché lo trovavi e vedevi ad ogni corsa, ad ogni traguardo, intrattenersi anche col più semplice dei tifosi, esponendo i suoi giudizi e ascoltando umilmente quelli degli altri.

Un uomo onesto che ha fatto della bicicletta la principale ragione di vita, ma non l’unica. Un protagonista dello sport che non ha mai dimenticato l’impegno sociale, che durante la seconda guerra mondiale ha deciso di schierarsi, tralasciando per qualche anno le corse per unirsi ai partigiani in montagna e partecipare attivamente alla Resistenza, facendosi carico di missioni pericolose sempre in sella alla sua bici.

Toscano doc, fin da giovane ha coltivato la passione per il ciclismo. Una passione – ha raccontato il giornalista Walter Bernardi – sostenuta e incoraggiata dalla madre, Regina, che lavorava sodo e chiedeva credito al macellaio di fiducia per non far mai mancare al figlio corridore una bella fiorentina, considerata – come darle torto – migliore e più efficace di ogni sorta di integratore. Un rapporto stretto e intimo quello con la madre, cui rivolse una tenera supplica: «Mammina, mammina, aiutami», dopo essere stato travolto da un’ammiraglia sulla salita del Barigazzo, durante la tappa appenninica Firenze-Bologna del Giro 1948.

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Alfredo Martini da corridore. (tiralento.it)

Sangue dal volto, bici e corpo ammaccati, Martini riprese la corsa perché così doveva comportarsi un gregario. Un episodio celebrato da un giovane cronista dal grande avvenire al seguito della corsa, un certo Enzo Biagi, che sul giornale Stadio teneva una rubrica in cui non parlava delle imprese dei grandi campioni ma della fatica e le sventure di gregari come Martini, vicende umane e sportive che lo affascinavano e attraevano molto di più.

Anche grazie al sacrificio di Alfredo, quel Giro 1948 fu vinto dal suo capitano Fiorenzo Magni, un campione che aveva idee politiche antitetiche alle sue. Ma durante la corsa, tra la polvere delle strade sterrate in salita e i tornanti percorsi in picchiata in discesa, vigeva solo l’ideale della fedeltà del gregario al proprio capitano, solo il linguaggio universale del ciclismo e della fatica.

Corridore vincente da dilettante, da professionista ha vinto poche ma significative corse: un Giro dell’Appennino e un Giro del Piemonte, una tappa del Giro d’Italia 1950, durante il quale vestì per un solo indimenticabile giorno la maglia rosa al traguardo di Brescia. Fu al servizio di Bartali, Coppi, Magni che se lo contendevano per averlo al proprio fianco, avendo ben compreso la forza e la sagacia tattica di quel ragazzo. Fu decisivo nello spalleggiare il Campionissimo nelle vittorie dei due Tour de France 1948 e 1952.

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Alfredo Martini in testa al gruppo, davanti a Fausto Coppi, al Giro d’Italia 1955. (ilnapoletano.org)

Dopo una ventina d’anni dalla fine della sua carriera, la seconda vita nel ciclismo Martini l’ha interpretata nel ruolo di direttore sportivo, vincendo il Giro d’Italia 1971 con lo svedese Gosta Pettersson. Nel 1975 fu nominato Commissario tecnico della Nazionale italiana, incarico ricoperto fino al 1997. Un periodo lunghissimo, caratterizzato da tanti trionfi e alcune inevitabili sconfitte. Gli uni e le altre sempre commentati e analizzati lucidamente, senza sensazionalismi, inutili esaltazioni o disfattismi, parole fuori contesto. Perché Martini sapeva bene che nello sport e nel ciclismo, come nella vita, si vince e si perde. Sempre nel solco invalicabile del rispetto e della tolleranza.

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Martini e i suoi campioni: Gianni Bugno, Giuseppe Saronni, Francesco Moser, Moreno Argentin e Maurizio Fondriest. (ansa.it/Marco Bucco)

Nei suoi anni alla guida da ct, l’Italia, oltre a una miriade di medaglie e piazzamenti, ha conquistato ben sei Campionati del Mondo. Come dimenticare le maglie iridate di Francesco Moser nel 1977 a San Cristóbal e Giuseppe Saronni nel 1982 a Goodwood, la vittoria nel 1986 a Colorado Springs negli Stati Uniti – nella stessa notte del successo iridato nella boxe di Patrizio Oliva – di Moreno Argentin su Charly Mottet, aiutato dai senatori Moser e Saronni che al cospetto di Martini accantonavano rivalità e incomprensioni nella bolla della Nazionale, come per incanto. E poi il sorprendente trionfo di Maurizio Fondriest nel 1988 a Renaix in Belgio, dopo l’emozionante e rocambolesca volata a tre, in cui il canadese Steve Bauer commise una scorrettezza facendo cadere rovinosamente a terra il beniamino di casa e favorito Claude Criquielion, E per finire la doppietta mondiale di Gianni Bugno, talento cristallino del nostro ciclismo, campione a Stoccarda 1991 e Benidorn 1992, dove sfruttò lo straordinario lavoro di tutta la squadra azzurra, con la volata finale tirata magistralmente da Giancarlo Perini, un gregario di Claudio Chiappucci che aiutò a vincere il rivale per antonomasia del suo capitano nella Carrera. Ennesimo capolavoro tattico, umano e sportivo orchestrato da Alfredo Martini. Di fronte al quale le ambizioni personali si smussavano, trasformandosi in obiettivi di squadra.

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Franco Ballerini e Alfredo Martini nel 1993. (fci-crt.it)

Pur continuando ad essere punto di riferimento per tutto il movimento, anima del ciclismo italiano, lasciò il testimone di commissario tecnico a Franco Ballerini, suo amico e allievo, che da lui aveva imparato saggezza e tanti trucchi del mestiere. Quando, dopo già quattro Mondiali vinti, Ballerini a 45 anni morì a seguito di un incidente di rally, Alfredo senza fronzoli o falsa retorica disse semplicemente: «I vecchi dovrebbero andarsene prima dei giovani, perché non possono caricarsi anche di questo dolore».

Rappresentano un lascito, una preziosa testimonianza queste parole di Martini contenute nel suo libro “La vita è una ruota. Storia resistente di uomini, donne e biciclette” (Ediciclo, 2014), scritto a quattro mani con Marco Pastonesi pochi mesi prima della sua morte. Testimoniano l’amore smisurato e tutta la sua incrollabile fede per la bici e la sua funzione sociale: «… oggi la bicicletta si sta rivelando sempre più importante. È la chiave di movimento e lettura delle grandi città. Un contributo sociale. E non ha controindicazioni. Fa bene al corpo e all’umore. Chi va in bici, fischietta, pensa, progetta, canta, sorride. Chi va in macchina, s’incattivisce o s’intristisce. La bicicletta non mi ha mai deluso. La bicicletta è sorriso, e merita il Nobel per la pace».

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Martini in sella all’inseparabile bicicletta. (lanazione.it)

P.S. Lo confesso: la decisione era già matura e radicata, ma la lettura di questo passo mi convinse definitivamente ad abbandonare l’automobile.

 

Foto copertina – dicorsetappeequalcosaltro.home.blog

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